Rivoluzione francese

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Rivoluzione francese
Il popolo di Parigi assalta la fortezza della Bastiglia il 14 luglio 1789, divenuta l'immagine-simbolo della rivoluzione francese
Data1789-1799
LuogoBandiera della Francia Francia
CausaMalcontento sociale
EsitoVittoria dei rivoluzionari
Modifiche territorialiCaduta della monarchia
Istituzione della repubblica
Schieramenti
Comandanti
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La rivoluzione francese, o prima rivoluzione francese (per distinguerla dalla rivoluzione di luglio e dalla rivoluzione francese del 1848), fu un periodo di radicale e a tratti violento sconvolgimento sociale, politico e culturale occorso in Francia tra il 1789 e il 1799, assunto dalla storiografia come lo spartiacque temporale tra l'età moderna e l'età contemporanea.[1]

Le principali e più immediate conseguenze della rivoluzione francese furono l'abolizione della monarchia assoluta, la proclamazione della repubblica con l'eliminazione delle basi economiche e sociali del cosiddetto Ancien Régime ("antico regime") e l'emanazione della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, il fondamento delle costituzioni moderne.[2]

Sebbene terminata con il periodo imperiale-napoleonico e la successiva Restaurazione da parte dell'aristocrazia europea, la Rivoluzione francese, insieme a quella americana, poiché segnò il declino dell'assolutismo, ispirò le rivoluzioni a connotazione borghese liberali e democratiche che seguirono nel XIX secolo (i cosiddetti moti rivoluzionari), dando definitivamente impulso alla nascita di un nuovo sistema politico, sotto il nome di Stato di diritto o Stato liberale, in cui la borghesia divenne la classe dominante, prodromi a sua volta della nascita dei moderni stati democratici del XX secolo.[3]

Le premesse

Fattori

Luigi XVI (Joseph Duplessis, 1777)

Nella Francia del XVIII secolo il potere era riposto nella monarchia assoluta di diritto divino rappresentata da Luigi XVI. La società era suddivisa in tre ceti o classi sociali: clero, nobiltà e terzo stato. Il terzo Stato costituiva il 98% della popolazione ed era la classe maggiormente tassata, in quanto la tradizione monarchica francese prevedeva consistenti privilegi per la nobiltà e il clero.[4]

Una serie di problemi economici provocarono malcontento e disordini nella popolazione. Dopo la caduta dei prezzi agricoli della viticoltura dal 1778, la produzione industriale decadde dal 1786, mentre nel 1785 una siccità aveva provocato una morìa del bestiame. Nel 1788 infine un pessimo raccolto causò una grande crisi del pane, fondamentale alimento per il popolo. Il prezzo del pane aumentò continuamente fino a quattro soldi per libbra a Parigi e otto soldi in alcune province; le condizioni dei lavoratori salariati decaddero fino alla miseria.[5]

La Francia era soprattutto colpita da una gravissima crisi finanziaria che, iniziata sotto il regno di Luigi XV, si era continuamente aggravata anche a seguito delle enormi spese, valutate in due miliardi di lire, sostenute per la guerra d'America[6] e che non avevano reso alcun vantaggio al paese, tranne la restituzione delle colonie del Senegal e di Tobago[7].

La necessità di risolvere la gravissima crisi in cui la Francia era precipitata non trovò soluzione nell'operato dei successori di Luigi XIV. Egual fallimento ebbero i tentativi di riforma al sistema giudiziario e fiscale. All'inizio del secolo la principale imposta diretta, la taglia, pesava soltanto sui non privilegiati. Per aumentare le entrate fiscali Luigi XV impose tasse a ogni ceto sociale, ma nobiltà e clero ne risentirono solo in minima parte: infatti, le nuove imposte, la capitazione e il ventesimo, sebbene colpissero ogni suddito, continuarono a gravare particolarmente sul terzo Stato e dunque non furono quindi in grado di contrastare il deficit del Paese e la continua crescita del debito pubblico per tutto il XVIII secolo.[8]

L'avversione dei sudditi francesi nei confronti della monarchia aumentò grazie anche alla presenza impopolare di Maria Antonietta - moglie di Luigi XVI - che, troppo legata alla sua patria austriaca, veniva chiamata con disprezzo dal popolo francese l'Autrichienne (letteralmente "l'Austriaca", che veniva però pronunciato marcando di proposito la seconda parte della parola in segno di spregio, in quanto chienne, in francese, significa "cagna").[9]

Maria Antonietta (Élisabeth Vigée-Le Brun, 1787)

In quel periodo, soprattutto in Francia, si stava sviluppando una nuova cultura, l'Illuminismo, basata su tre principi fondamentali: razionalismo, egualitarismo e contrattualismo (quest'ultimo era una corrente di pensiero nata dal rifiuto per l'assolutismo, basata su un contratto stipulato tra popolo e governo). La filosofia degli illuministi si diffuse fino ai ceti più alti della società (borghesia e nobiltà liberale); al modello francese della monarchia assoluta fu contrapposto quello inglese di una monarchia limitata da un parlamento e all'obbedienza del soggetto furono contrapposti i diritti del cittadino. I filosofi illuministi difesero l'idea che il potere sovrano supremo risiede nella Nazione. Oltre a questo nuovo modo di pensare, la Rivoluzione americana, avvenuta poco prima di quella francese, rappresentò un ulteriore modello di ribellione per i sudditi francesi[10].

Convocazione degli Stati Generali

Jacques Necker (Joseph Duplessis, 1781)

Durante i regni di Luigi XV e Luigi XVI diversi ministri, tra i quali Anne Robert Jacques Turgot e Jacques Necker in primis, cercarono di risanare la situazione economica attraverso una capillare riforma del sistema fiscale nella sua interezza ed una riduzione delle spese improduttive; tale politica, tuttavia, nonostante alcuni successi iniziali, incontrò la resistenza della nobiltà e del clero che provocarono le dimissioni di Turgot.

Al posto di Turgot, dunque, il parlamento scelse il banchiere ginevrino Jacques Necker, il quale cercò di coprire le spese chiedendo prestiti a banchieri olandesi ed inglesi mentre al contempo scrisse al sovrano sulla necessità di ridurre i poteri dei parlamenti e di abolire le esenzioni fiscali[11]; a sostegno delle proprie idee, Necker pubblicò, il 19 febbraio 1781, il bilancio dello Stato, il quale percepiva 503 milioni di livre di entrate contro 629 milioni di spese mentre la sola spesa per interessi sul debito pubblico, pur fortemente sottostimata dal ministro, ammontava a 318 milioni[12]. In ogni caso, il dato che scandalizzò fortemente l'opinione pubblica fu la spesa personale sostenuta dalla corte in un periodo, per la quasi totalità della popolazione francese, di fame e miseria: 38 milioni tra feste e pensioni per i cortigiani.

Luigi XVI, furibondo per la pubblicazione del rendiconto generale dello stato e per la proposta di riduzione del potere dei parlamenti locali, rifiutò di attuare le riforme proposte e, il 3 novembre 1783, sostituì Necker con Charles Alexandre de Calonne il quale intraprese una politica di spese consistenti volta a convincere i potenziali creditori che la Francia godeva di un'ottima solidità finanziaria: nel breve termine sperava in una dimostrazione di supporto da parte dell'Assemblea dei Notabili, che avrebbe permesso di ottenere dei prestiti con cui far fronte alle spese allo scopo di rilanciare, nel lungo periodo, la crescita economica[13].

In seguito, con uno studio dettagliato della situazione finanziaria, si rese conto che la sua politica economica non era sostenibile e indicò il bisogno di varare delle importanti riforme, in particolare propose un codice tributario uniforme per le proprietà terriere, con il quale tutti sarebbero stati tassati senza eccezioni, nobiltà e clero compresi[14]. Quando Calonne, il 22 febbraio 1787, espose la necessità di attuare la riforma proposta, l'Assemblea dei Notabili, formata principalmente da benestanti non intenzionati a pagare nuove imposte, rifiutò di accettare le sue soluzioni. Le finanze francesi erano alla bancarotta; secondo François-Auguste Mignet, i prestiti ammontavano a 1.646 milioni di livre e c'era un deficit annuale di 46 milioni.[15]

Luigi XVI, capendo che Calonne non era in grado di gestire la situazione, il 1º maggio 1787 lo sostituì con il suo principale oppositore, il presidente dell'Assemblea dei Notabili e capo dell'opposizione, Étienne-Charles de Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa. Brienne propose al parlamento di garantire il libero commercio interno, oltre al prevedere delle assemblee provinciali e la redenzione delle corvée, ma queste riforme incontrarono nuovamente una forte opposizione soprattutto dal Parlamento di Parigi (organo giudiziario con funzioni di controllo sulla legittimità degli atti ma privo di funzioni politiche). Successivi tentativi di modifica al sistema tributario provocarono un'ulteriore massiccia resistenza dei gruppi benestanti, che portò al ritiro dei prestiti di breve durata. In quel momento questi prestiti davano ossigeno e vita all'economia dello Stato francese e il loro venir meno provocò una situazione di bancarotta nazionale.

Giornata delle Tegole a Grenoble

Si cominciava a diffondere l'idea che solo un organo rappresentativo di tutta la Nazione, come gli Stati Generali, avrebbe potuto votare l'applicazione di nuove riforme; il 18 dicembre 1787 Luigi XVI promise di convocarli entro cinque anni, segnando, de facto, lo stato di profonda crisi in cui si trovava la monarchia[16].

Nel maggio del 1788 a Grenoble le proteste delle famiglie, toccate profondamente dalla crisi economica, aumentarono notevolmente. L'esercito fu obbligato a intervenire il 7 giugno, venendo accolto da tegole lanciate dai cittadini saliti sui tetti. Conseguentemente a questo avvenimento, ricordato come Giornata delle Tegole, il 21 luglio un'assemblea formata da nobiltà, clero e terzo Stato si riunì al Castello di Vizille (vicino a Grenoble), dove decise di mettere in atto lo sciopero delle imposte. Incapace di ristabilire l'ordine, Luigi XVI l'8 agosto annunciò la convocazione degli Stati Generali per il 5 maggio 1789 (prima volta dal 1614). Il 25 agosto Brienne rinunciò all'incarico di ministro delle Finanze e al suo posto venne richiamato Necker.

Fine della monarchia assoluta

Lo stesso argomento in dettaglio: Stati Generali del 1789.

Campagna elettorale per l'elezione dei deputati degli Stati Generali

Emmanuel Joseph Sieyès
(Jacques-Louis David, 1817)

La società francese era molto cambiata dall'ultima convocazione degli Stati Generali avvenuta nel 1614: all'epoca, infatti, ogni stato aveva, approssimativamente lo stesso numero di rappresentanti; inoltre, la procedura degli Stati Generali prevedeva che i tre ordini si riunissero in tre camere separate per discutere ed emettere un voto per camera; dato che il voto della nobiltà e del clero veniva spesso a coincidere, il terzo Stato poteva essere messo facilmente in minoranza. In ogni caso, quest'ultimo vide comunque la convocazione degli Stati Generali come una possibilità di migliorare la propria posizione sociale: i contadini, sostenuti dal basso clero sensibile alle loro difficoltà, speravano nell'abbandono dei diritti feudali e la borghesia, ispirata dalle idee illuministe condivise con alcuni membri della nobiltà, credeva nell'instaurazione dell'uguaglianza dei diritti e di una monarchia parlamentare ispirata al modello inglese.

Tutto ciò causò l'animazione del dibattito politico durante l'elezione dei deputati degli Stati Generali. Nel corso della campagna elettorale, nei cahiers de doléances (registri nei quali le assemblee incaricate di eleggere i deputati agli Stati Generali annotavano critiche e lamentele della popolazione) venne stilato un elenco dei soprusi a cui era sottoposto il terzo Stato[17]. Il dibattito riguardò anche l'organizzazione interna degli Stati Generali, infatti il terzo Stato chiese il raddoppio del numero dei loro deputati (richiesta già esaudita nelle assemblee provinciali) affinché la loro rappresentanza politica corrispondesse maggiormente alla situazione reale della società francese.

Questo divenne uno degli argomenti principali trattati dagli opuscolisti, fra i quali l'abate Emmanuel Joseph Sieyès che pubblicò l'opuscolo Qu'est-ce que le tiers état? (Cos'è il terzo stato?); va ricordato, tuttavia, che l'animo dei membri del terzo stato non era affatto fautore di un cambiamento radicale: la gran parte dei membri, infatti, restava fautrice della monarchia e molti erano convinti che occorresse, semplicemente, riformare il sistema fiscale[18][19].

Necker, sperando di evitare ulteriori contrasti all'interno della società, riunì l'Assemblea dei Notabili il 6 novembre 1788 per discutere le richieste del terzo Stato, ma i Notabili rifiutarono ogni istanza; Luigi XVI, tuttavia, con un decreto reale del 27 novembre 1788, annunciò che agli imminenti Stati Generali avrebbero partecipato almeno un migliaio di deputati, garantendo la rappresentanza doppia per il terzo Stato.

Le elezioni furono tenute nella primavera del 1789 (potevano votare tutti i cittadini maggiori di 25 anni che pagassero una quota prefissata di imposte) e portarono alla selezione di 1201 delegati: 303 per il clero, 291 nobili e 610 per il terzo stato. I 303 delegati del clero, tra i quali si contavano 51 vescovi, rappresentavano appena 100.000 chierici i quali, tuttavia, detenevano il controllo del 10 % delle terre ed in più avevano il diritto di imporre contributi alla popolazione[20]. I 291 nobili, tra i quali almeno un terzo detenevano titoli minori, rappresentavano circa 400 mila persone che detenevano circa il 25 % dei possedimenti terrieri dai quali potevano trarre rendite e su cui potevano imporre diritti feudali. I 610 membri del terzo stato, dunque, rappresentavano il restante 95-98 % della popolazione: tutti erano avvocati o pubblici ufficiali, almeno un terzo di loro erano impegnati nel commercio o in attività industriali, infine 51 di loro possedevano vaste tenute agricole[21][22].

Un'ulteriore richiesta del terzo Stato fu l'applicazione del voto per testa, con il quale l'assemblea sarebbe stata convocata in un'unica camera e ogni deputato avrebbe disposto di un voto. Luigi XVI, che aveva acconsentito al raddoppio dei deputati del terzo Stato, non si pronunciò sulla questione e diede la responsabilità di decidere agli Stati Generali stessi. Se si fosse continuato a votare per ordine, come in passato, il fatto che il numero dei rappresentanti del terzo Stato fosse stato raddoppiato non avrebbe cambiato le cose.

Dagli Stati Generali all'Assemblea nazionale

La seduta inaugurale degli Stati Generali ebbe luogo il 5 maggio 1789 a Versailles. Molti esponenti del terzo Stato videro l'ottenimento della rappresentanza doppia come una rivoluzione già pacificamente conseguita ma, con l'utilizzo di un protocollo procedurale sostanzialmente stilato in un'era precedente, fu immediatamente evidente che in realtà era stato ottenuto molto meno.

Con i discorsi iniziali di Luigi XVI, del guardasigilli Charles Louis François Paul de Barentin e di Necker, i deputati del terzo Stato non sentirono affatto parlare delle riforme politiche tanto attese, in quanto vennero affrontati unicamente problemi prettamente finanziari. La questione del passaggio dal voto per ordine al voto per testa non venne menzionata e il terzo Stato capì che la rappresentanza doppia sarebbe servita a ben poco, avendo unicamente un significato simbolico: la votazione si sarebbe svolta per ordine come in passato e quindi, dopo aver deliberato, il loro voto collettivo avrebbe pesato esattamente come quello di uno degli altri due stati; infatti, nobiltà e clero, pur non essendo totalmente favorevoli alla presenza dell'assolutismo reale, erano consapevoli che con l'utilizzo del voto per testa avrebbero perso più potere nei confronti del terzo Stato rispetto a quello che avrebbero guadagnato dalla corte[23].

Cercando di evitare la questione della rappresentanza politica e focalizzandosi unicamente sui problemi finanziari, il re e i suoi ministri sottovalutarono la situazione; quando Luigi XVI cedette finalmente alle insistenti richieste del terzo Stato di discutere sul sistema di votazione, parve a tutti una concessione estorta alla monarchia piuttosto che un dono magnanimo che avrebbe convinto la popolazione della buona volontà del sovrano[24].

Il 9 maggio, invece di affrontare la questione finanziaria come richiesto da Luigi XVI, i tre stati cominciarono a discutere sull'organizzazione della legislatura. I deputati del terzo Stato furono unanimi nella scelta del voto per testa e si autoproclamarono deputati dei Comuni, intendendo con ciò rifiutare il titolo di rappresentanti di un ordine per assumere quello di rappresentanti della Nazione. Si trattava già di un atto rivoluzionario al quale la nobiltà rispose dichiarandosi favorevole al voto per ordine, imitata dal clero. Dopo uno stallo di un mese, il 10 giugno i deputati dei Comuni invitarono i delegati degli altri due ordini a procedere a una verifica dei poteri in un'assemblea comune.

L'invito, respinto dalla nobiltà, fu raccolto nei giorni successivi da un numero crescente di deputati del basso clero, finché il 15 giugno, su iniziativa dell'abate Sieyès (membro del clero, eletto per rappresentare il terzo Stato), i deputati dei Comuni decisero di dare inizio ai lavori. Il 17 giugno 1789 l'ex terzo Stato completò il processo di verifica, diventando l'unico ordine i cui poteri fossero stati legalizzati, autodefinendosi Assemblea nazionale con l'intento di identificare un'assemblea non più degli stati ma del popolo[25]. Il 19 giugno il clero, che aveva tra le sue fila dei parroci sensibili ai problemi dei contadini, votò a favore dell'unione all'Assemblea nazionale.

Assemblea nazionale costituente

L'Assemblea nazionale cercò immediatamente di guadagnare i favori degli uomini che possedevano capitale, necessari come fonte di credito per finanziare e consolidare il debito pubblico. Dichiarò illegali tutte le tasse esistenti, sebbene vennero votate e riutilizzate per il periodo di riunione dell'attuale Assemblea; venne inoltre istituito un comitato di sussistenza per affrontare la carenza di cibo, dare così aiuto alla gente bisognosa ed al contempo iniettare fiducia al sistema finanziario francese.

La nobiltà, notando l'avvicinamento del clero ai Comuni, indirizzò al re una protesta con la quale ricordava che la soppressione degli ordini avrebbe non soltanto messo in discussione i diritti e il destino della nobiltà ma anche quelli della stessa monarchia. I nobili, che furono i primi a volere la convocazione degli Stati Generali sperando con essi di eliminare l'assolutismo monarchico, ritornavano così a sottomettersi all'iniziativa reale, quale garante della loro stessa sopravvivenza. Luigi XVI, influenzato dai suoi consiglieri, accolse l'invito della nobiltà e decise di annullare i decreti fin qui attuati dall'Assemblea nazionale, cercando di reintrodurre la separazione degli ordini e imporre che le riforme fossero emanate solamente dagli Stati Generali restaurati[26].

Giuramento della Pallacorda
(Jacques-Louis David, 1791)

Il 20 giugno 1789 il re ordinò la chiusura della sala dove si riuniva l'Assemblea con il pretesto di eseguirvi dei lavori di manutenzione, cercando in questo modo di impedire qualsiasi riunione. L'Assemblea nazionale, su proposta del deputato Joseph-Ignace Guillotin, spostò le proprie deliberazioni in una sala vicina adibita al gioco della pallacorda, dove i deputati giurarono di non separarsi in nessun caso e di riunirsi ovunque le circostanze lo avrebbero richiesto, fino a che la Costituzione francese non fosse stata stabilita e affermata su solide fondamenta (Giuramento della Pallacorda); il 22 giugno, privata anche dell'uso della Sala della Pallacorda, l'Assemblea nazionale si riunì nella chiesa di Saint-Paul-Saint-Louis, dove venne raggiunta dalla maggioranza dei rappresentanti del clero; in pratica, gli sforzi della monarchia per ripristinare il vecchio ordine erano serviti solo ad accelerare gli eventi[27].

Il 23 giugno il re, rivolgendosi ai rappresentanti dei tre stati (nuovamente nella sala dell'Hôtel des Menus-Plaisirs), espresse la volontà di conservare la distinzione degli ordini, annullando la costituzione dei Comuni in Assemblea nazionale. Dichiarò che se l'Assemblea l'avesse abbandonato, egli avrebbe comunque fatto il bene del popolo senza di essa. Concluse ordinando a tutti di disperdersi, venendo obbedito solo dai nobili e dal clero. In quest'occasione Mirabeau disse: «Una forza militare circonda l'Assemblea! Dove sono i nemici della nazione? C'è Catilina alle nostre porte? Io richiedo, investite voi stessi con la vostra dignità, con il vostro potere legislativo, accludete a voi la religione del vostro giuramento. Questo non vi permette di sciogliervi finché non avrete formato una costituzione»[28]. Nei tre giorni successivi l'Assemblea vide nuovamente aumentare i propri ranghi, infatti il 25 giugno si unirono 47 nobili, tra i quali il Duca d'Orléans.

Luigi XVI ammise implicitamente il fallimento della sua iniziativa e il 27 giugno invitò ufficialmente nobiltà e clero a unirsi all'Assemblea nazionale; il clero accettò immediatamente la proposta mentre i nobili rifiutarono con indignazione. Poteva quindi continuare l'opera di smantellamento del vecchio ordine e il 7 luglio fu eletto un comitato per l'elaborazione della Costituzione. Due giorni dopo l'Assemblea nazionale si proclamò Assemblea nazionale costituente[29]. Rimaneva però sempre presente la possibilità di un contraccolpo militare e a testimoniarlo fu l'arrivo di un grande numero di soldati attorno a Versailles, Parigi, Sèvres e Saint-Denis.

Presa della Bastiglia

Lo stesso argomento in dettaglio: Presa della Bastiglia.

Rivolgendosi al re in termini educati ma fermi e supportata da Parigi e da molte altre città della Francia, l'Assemblea richiese la rimozione delle truppe (che includevano reggimenti stranieri, più obbedienti al re rispetto alle truppe francesi), ma Luigi XVI rispose che lui solo poteva prendere decisioni sui soldati e rassicurò che la loro presenza era una misura strettamente precauzionale. Il re propose inoltre di spostare l'Assemblea nazionale a Noyon o a Soissons, con l'intento di porla in mezzo a due eserciti e privarla del supporto dei cittadini parigini. L'Assemblea, rifiutando la proposta del sovrano, dichiarò che essa aveva ricevuto il suo mandato non dai singoli elettori ma dall'intera nazione, mettendo così in pratica il principio della sovranità nazionale difeso da Diderot.

La stampa pubblicò i dibattiti dell'Assemblea nazionale, estendendo la discussione politica alle piazze e ai salotti della capitale. Palais Royal e l'area circostante divennero il luogo di continui incontri tra la gente comune; la questione politica divenne talmente importante da indurre i cittadini a liberare alcuni granatieri della Guardia francese che erano stati imprigionati per essersi rifiutati di aprire il fuoco sulla folla. Successivamente l'Assemblea raccomandò i soldati liberati alla clemenza del re, il quale li perdonò. Gran parte dell'esercito era ora favorevole alla causa popolare.

Presa della Bastiglia
(Jean-Pierre Houël, 1789)

Necker nel frattempo si era guadagnato l'inimicizia di parte della corte, avendo manifestato in parecchie occasioni delle idee filo-popolari; l'11 luglio venne destituito dal re, il quale gli ordinò di lasciare la Francia entro due giorni[30]. Il 12 luglio la popolazione di Parigi, venuta a conoscenza dell'accaduto, organizzò una grande manifestazione di protesta, durante la quale vennero portate delle statue raffiguranti i busti di Necker e del duca d'Orleans. Alcuni soldati tedeschi ricevettero l'ordine di caricare la folla, provocando diversi feriti e distruggendo le statue. Il dissenso dei cittadini aumentò a dismisura e l'Assemblea nazionale avvertì il re del pericolo che avrebbe corso la Francia se le truppe non fossero state allontanate, ma Luigi XVI rispose che non avrebbe cambiato le sue disposizioni.

La mattina del 13 luglio quaranta dei cinquanta ingressi che permettevano di entrare a Parigi vennero dati alle fiamme dalla popolazione in rivolta. I reggimenti della Guardia francese formarono un presidio permanente attorno alla capitale, sebbene molti di questi soldati fossero vicini alla causa popolare. I cittadini cominciarono a protestare violentemente contro il governo affinché riducesse il prezzo del pane e dei cereali e saccheggiarono molti luoghi sospettati di essere magazzini per provviste di cibo; uno di questi fu il convento di Saint-Lazare (che fungeva da ospedale, scuola, magazzino e prigione), dal quale vennero prelevati 52 carri di grano. In seguito a questi disordini e saccheggi, che continuavano ad aumentare, gli elettori della capitale (gli stessi che votarono durante le elezioni degli Stati Generali) si riunirono al Municipio di Parigi e decisero di organizzare una milizia cittadina composta da borghesi, che garantisse il mantenimento dell'ordine e la difesa dei diritti costituzionali (due giorni dopo, con Gilbert du Motier de La Fayette, venne denominata Guardia nazionale). Ogni uomo inquadrato in questo gruppo avrebbe portato, come segno distintivo, una coccarda con i colori della città di Parigi (blu e rosso). Per armare la milizia si cominciò a saccheggiare i luoghi dove si riteneva fossero custodite le armi.

La mattina del 14 luglio gli insorti attaccarono l'hôtel des Invalides con l'obiettivo di procurarsi delle armi; si impossessarono di circa ventottomila fucili[31] e qualche cannone ma non trovarono la polvere da sparo. Per impadronirsi della polvere decisero di assalire la prigione-fortezza della Bastiglia (vista dal popolo come un simbolo del potere monarchico), nella quale erano tenuti in custodia solamente sette detenuti. Gli elevati costi di mantenimento di una fortezza medievale così imponente, adibita all'epoca a una funzione limitata come quella di carcere, portò alla decisione di chiuderne i battenti e probabilmente fu per questo motivo che il 14 luglio gli alloggi della prigione erano praticamente vuoti. La guarnigione della fortezza era composta da 82 invalidi (soldati veterani non più idonei a servire in combattimento), ai quali il 7 luglio si aggiunsero 32 Guardie svizzere; il governatore della prigione era Bernard-René Jourdan de Launay.

Gilbert du Motier de La Fayette
(Joseph-Desire Corte, 1791)

Pierre-Augustin Hulin prese la guida degli insorti e una folla sempre più numerosa raggiunse la fortezza chiedendo la consegna della prigione. Launay trovandosi circondato,[32] pur avendo la forza per respingere l'attacco, cercò di trovare una soluzione pacifica ricevendo alcuni rappresentanti degli insorti, con i quali cercò di negoziare.[32] La trattativa si protrasse per lungo tempo mentre all'esterno la folla continuava ad aumentare fino a quando, verso le 13:30, le catene del ponte levatoio vennero tagliate e gli insorti riuscirono a penetrare nel cortile interno, scontrandosi con la Guardia svizzera: ci fu un violento combattimento che causò diversi morti (gli uomini del regio esercito, accampati nel vicino Campo di Marte, non intervennero)[33].

Cercando di evitare un massacro reciproco, Launay ordinò ai suoi uomini di cessare il fuoco e inviò una lettera agli assedianti dove riportava le condizioni di resa, ma queste vennero rifiutate. Il governatore, capendo che i propri uomini non avrebbero potuto resistere ancora a lungo,[31][32] decise di capitolare, permettendo agli insorti di penetrare nella Bastiglia.

Gli assalitori riuscirono così a occupare la prigione-fortezza; le guardie trovate morte vennero decapitate e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e portate attraverso tutta la città. Il resto della guarnigione fu fatta prigioniera e condotta al Municipio ma lungo la strada, in piazza de Grève, Launay fu preso dalla folla e linciato. Uno degli insorti lo decapitò e infilzò la testa su una picca.[34] Ritornando al Municipio la folla accusò il prévôt des marchands (carica corrispondente grosso modo a quella di un sindaco) Jacques de Flesselles di tradimento; durante il viaggio, che lo avrebbe portato a Palais-Royal per essere processato, fu assassinato.

Inizialmente Luigi XVI diede poca importanza all'accaduto, ma successivamente riconobbe la gravità della situazione; il 15 luglio 1789 si recò all'Assemblea nazionale dove dichiarò che da quel momento avrebbe lavorato con la Nazione e ordinato alle truppe di allontanarsi da Versailles e da Parigi. Questi annunci furono accolti con entusiasmo generale ma ben presto il re si dovette rendere conto che era troppo tardi per fermare il movimento rivoluzionario[35].

Su richiesta dell'Assemblea il sovrano richiamò Necker al governo. Venne creata la Guardia nazionale, affidata al comando di La Fayette, con il compito di reprimere ogni eventuale tentativo rivoluzionario. Tutti i membri della precedente amministrazione erano fuggiti e il presidente dell'Assemblea nazionale, Jean Sylvain Bailly, fu eletto per acclamazione sindaco di Parigi. Parecchie città crearono nuove municipalità borghesi, rimuovendo i rappresentanti del vecchio regime con l'intento di eliminare il centralismo monarchico. Luigi XVI riconobbe questo sistema quando il 17 luglio si recò a Parigi; in quell'occasione ricevette dal nuovo sindaco una coccarda blu e rossa (colori della città di Parigi) che fissò sul suo cappello, associando anche il colore bianco della monarchia (questo gesto voleva simboleggiare una riconciliazione)[36].

La notizia della Presa della Bastiglia si diffuse in tutta la Francia, aumentando la consapevolezza che la forza della popolazione era in grado di supportare le idee dei riformatori. Per sfruttare questo momento a discapito della monarchia, alla Bastiglia venne dato un significato simbolico: rappresentò il potere arbitrario ma vulnerabile del re.

Grande paura e abolizione del feudalesimo

Dal 20 luglio al 6 agosto 1789, nelle campagne francesi, si manifestò una situazione di panico generalizzato (periodo della Grande Paura) suscitato dalla falsa notizia dell'invasione di briganti venuti a distruggere i raccolti e a trucidare i contadini, per vendicare la nobiltà colpita dalle rivolte agrarie scaturite dai recenti sviluppi politico-sociali[37].

All'annuncio dell'imminente arrivo dei briganti nei villaggi, i contadini si armavano di forche, falci e altri utensili. Desiderosi di maggiore protezione, si recavano in massa al castello del signore locale per ottenere fucili e polvere da sparo, ma qui finivano per sfogare la propria rabbia verso i poteri dominanti, esigendo i titoli signorili (documenti che stabilivano la dominazione economica e sociale dei loro proprietari) per poterli bruciare. In alcuni casi il signore o i suoi uomini si difesero con la forza, in altri vennero assassinati e alcuni castelli furono saccheggiati o bruciati. A testimonianza del difficile momento che il feudalesimo stava attraversando, Jules Michelet scrisse che tutti i castelli di campagna diventarono delle bastiglie da conquistare.

Di fronte a queste violenze, nella notte del 4 agosto, l'Assemblea decise di abolire i diritti feudali, la venalità delle cariche, le disuguaglianze fiscali e tutti i privilegi in generale; fu la fine dell' Ancien Régime[38].

Durante la redazione dei decreti avvenuta dal 5 all'11 agosto, i deputati, quasi tutti proprietari fondiari nobili e borghesi, cambiarono in parte idea in merito alle proposte originarie[39]: i servigi o prestazioni d'opera gratuita che il titolare di un feudo imponeva ai suoi soggetti vennero aboliti, mentre i diritti basati sulla rendita della terra continuavano a essere riscattati (agevolando in questo modo solamente i contadini più ricchi), permettendo così ai proprietari terrieri di ricevere un'indennità che in parte avrebbe salvaguardato i loro interessi economici e in parte sarebbe stata investita nell'acquisto di beni nazionali con l'intento di mettere fine alle rivolte[40]; in ogni caso, la maggior parte dei contadini comunque, ritenendosi completamente svincolata dal vecchio regime feudale, non pagò nessun indennizzo ai proprietari terrieri (che, peraltro, furono condonati nel 1793)[41].

In sintesi, i decreti dell'agosto del 1789 divennero uno dei fondamenti della Francia moderna: distrussero integralmente la società feudale con la differenza in "stati" e privilegi e ad essa sostituirono una società moderna, autonoma, individuale, libera di compiere tutto ciò che non fosse proibito dalla legge[42].

Infine, nel novembre del medesimo anno, furono sospesi i tredici parlamenti regionali in attesa della loro definitiva abolizione (sarebbe avvenuta nel settembre del 1790); fatto che aprì le porte alla distruzione del sistema giuridico ed istituzionale dell''Ancien Régime[43].

Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

Lo stesso argomento in dettaglio: Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.

Dal 20 al 26 agosto l'Assemblea nazionale costituente discusse sul progetto della Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino), documento giuridico contenente i diritti fondamentali dell'individuo e del cittadino, ispirato ai principi illuministi e basato su un testo proposto da La Fayette[44]. Approvata il 26 agosto, rappresentava una condanna senza appello della monarchia assoluta e della società degli ordini, che rispecchiava le aspirazioni della borghesia dell'epoca (garanzia delle libertà individuali, sacralità della proprietà, spartizione del potere con il re, creazione di impieghi pubblici).

Marcia su Versailles

Lo stesso argomento in dettaglio: Marcia su Versailles.
La marcia delle donne su Versailles
(anonimo, 1789)

Le difficoltà di approvvigionamento del pane e il rifiuto di Luigi XVI di promulgare la Dichiarazione e i decreti del 4 e del 26 agosto, furono la causa del malcontento del popolo di Parigi durante i giorni del 5 e del 6 ottobre. Ben presto, il tumulto degenerò[45] ed una marcia di donne assalì Versailles, entrò nella reggia e invase gli appartamenti della regina, che fu insultata; la famiglia reale fu dunque costretta a tornare a Parigi e a lasciare Versailles, simbolo dell'assolutismo; Luigi XVI fu costretto a firmare i decreti di agosto riguardo l'abolizione dei diritti feudali e la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino: da quel momento il re e la sua famiglia risiedettero nel vecchio Palazzo delle Tuileries, sorvegliati dalla popolazione e minacciati dalla sommossa[46].

Il potere reale ne uscì estremamente indebolito: la Francia restò una monarchia ma il potere legislativo passò nelle mani dell'Assemblea nazionale costituente (anch'essa trasferita a Parigi), la quale incaricò delle speciali commissioni di provvedere a una nuova organizzazione amministrativa del Paese (i ministri non divennero altro che degli esecutori tecnici sorvegliati dall'Assemblea). Tuttavia il re conservò il potere esecutivo (i decreti promulgati dall'Assemblea non avrebbero avuto validità senza l'approvazione del re) e i vecchi funzionari dell'amministrazione dell' Ancien Régime restarono al loro posto (fino all'estate del 1790 gli intendenti che non si dimisero continuarono le loro vecchie funzioni, sebbene esse fossero state considerevolmente ridotte).

Rinnovamento delle istituzioni francesi

L'Assemblea Costituente, in maggioranza formata da borghesi e nobili, intraprese una vasta opera di riforme, applicando le idee dei filosofi e degli economisti del XVIII secolo.

Riforma amministrativa ed elettorale

I primi lavori dell'Assemblea furono dedicati alla riforma amministrativa, in quanto le vecchie procedure dell' Ancien Régime erano troppo complesse. I deputati si concentrarono innanzitutto sulla riforma municipale, resa urgente dai disordini suscitati nei corpi municipali dagli scompigli dell'estate. Con la legge del 22 dicembre 1789 l'Assemblea creò 83 dipartimenti (circoscrizioni amministrative, giudiziarie, fiscali e religiose), ai quali vennero dati dei nomi legati alla loro geografia fisica (corsi d'acqua, montagne, mari, ecc.) e furono suddivisi in distretti, cantoni e comuni (in primavera una commissione venne incaricata di provvedere alla suddivisione della Francia e di placare le liti tra le città candidate a divenire capoluoghi)[47].

A partire dal gennaio del 1790 ogni amministratore di questi nuovi enti venne eletto dai propri cittadini, inaugurando le prime elezioni della Rivoluzione; le nuove amministrazioni, elette democraticamente, furono messe in funzione a partire dall'estate del 1790.

Le posizioni all'interno dell'Assemblea Costituente furono discordanti in merito alla riforma del sistema elettorale. Alcuni deputati ritennero che il diritto di voto avrebbe dovuto estendersi a tutti i cittadini maschi, altri sostennero che solo a una parte della popolazione doveva essere riconosciuto tale diritto. La maggioranza dei deputati decise, su proposta dell'abate Sieyès, di dividere i cittadini in passivi e attivi: ai primi sarebbero stati riconosciuti i diritti civili, ai secondi sarebbero stati concessi sia i diritti civili sia quelli politici; ogni cittadino attivo doveva essere un contribuente maschio al di sopra dei venticinque anni. Venne così approvato un sistema elettorale basato sul censo.

Riforma economica

Sotto l'Ancien Régime le attività economiche erano state strettamente controllate dallo Stato, che con le sue regolamentazioni limitò gravemente la libertà di produzione agricola, artigianale e industriale. L'Assemblea rimosse tutti questi ostacoli e adottò il principio fisiocratico del laissez faire (lasciar fare), basato sul liberismo economico formulato da Adam Smith, che favorì l'eliminazione delle dogane e l'applicazione di incentivi a favore di tutte le forme di produzione a scopo capitalistico.

Con la legge Le Chapelier (ideata dal deputato Isaac René Guy Le Chapelier), votata il 14 giugno 1791, venne abolito il diritto di sciopero e furono vietate tutte le associazioni padronali e operaie (sindacati) con il pretesto che il nuovo regime, avendo distrutto le antiche corporazioni, non poteva permettere la ricostruzione di nuovi gruppi che si interponessero fra Stato e cittadini[48]; il risultato fu che il movimento rivoluzionario, diffidando nei confronti delle associazioni ed esaltando le libertà individuali, mise gli operai nell'incapacità di difendere i loro diritti per quasi un secolo.

Assegnato di 5 livre del 1791

Se, nel corso dell'Ancien Regime, la chiesa aveva detenuto numerose proprietà mobili ed immobili (circa il 10 % del regno) con il privilegio di una esenzione dalle imposte statali e con il diritto di richiedere una decima (in danaro o in natura)[49], la Rivoluzione Francese significò la distruzione di tutto ciò e, in conseguenza, determinò una fortissima riduzione del ruolo e del prestigio del clero nello stato[50].

Infatti, il potere e le ricchezze del clero crearono un forte risentimento della popolazione nei confronti della Chiesa che a sua volta indusse l'assemblea a sopprimere definitivamente la decima, a partire dall'11 agosto 1789[51]; il 2 novembre, su proposta di Charles Maurice de Talleyrand-Périgord (vescovo di Autun), l'Assemblea decise di usufruire della grande quantità di beni del clero per colmare il debito pubblico, mettendoli all'asta con l'intento di sanare il deficit dell'economia francese[52].

Per vendere così tanti beni era necessario molto tempo, durante il quale le casse dello Stato avrebbero potuto svuotarsi[53]; per evitare questo, il 19 dicembre si decise di creare dei biglietti il cui valore era assegnato in riferimento ai beni del clero: nacque così l'assegnato. Da quel momento, chiunque desiderava comprare dei beni nazionali doveva farlo attraverso gli assegnati emessi dallo Stato, permettendo a quest'ultimo di impossessarsi di moneta prima ancora dell'effettiva vendita del bene. Effettuata la vendita, gli assegnati sarebbero ritornati nelle mani dell'emittente per essere distrutti. I primi biglietti avevano un elevato valore (1.000 livre) che non li rendeva idonei a essere messi in circolazione tra la popolazione, ma il loro scopo principale era di far rientrare la maggiore quantità possibile di moneta nelle casse dello Stato. Il valore totale della prima emissione fu di 400 milioni di livre.

Non tutti i deputati dell'Assemblea furono favorevoli a questa riforma (tra essi Talleyrand), sostenendo che il nuovo sistema avrebbe portato alla circolazione di un numero troppo elevato di assegnati rispetto al valore dei beni nazionali. Il 17 aprile 1790 l'assegnato venne convertito in cartamoneta (Necker, essendo contrario, si dimise in settembre) e lo Stato, sempre a corto di liquidità, lo utilizzò per fronteggiare tutte le sue spese; ne vennero messi in circolazione in una grande quantità che con il tempo superò il valore dei beni nazionali, avverando i timori dei deputati più scettici.

Tra il 1790 e il 1793 gli assegnati persero il 60% del loro valore ma, ciononostante, i prezzi di acquisto dei beni nazionali rimasero molto elevati per le classi popolari e solo la classe agiata poteva acquistarli (molte persone si arricchirono enormemente, acquistando grandi terreni e fabbricati per somme irrisorie rispetto al loro valore reale)[54]: tutto questo contribuì fortemente a dare inizio a un periodo di forte inflazione e l'Inghilterra, all'epoca il più grande nemico della Francia, cominciò a produrre dei falsi assegnati per accelerare la crisi economica francese.

Questione religiosa

In ogni caso, la già citata, eliminazione della decima e la nazionalizzazione dei beni della Chiesa (con conseguente abolizione degli ordini religiosi monastici, decisa il 13 febbraio 1790[55]) costrinsero l'Assemblea nazionale costituente a interessarsi direttamente del finanziamento del clero nonché delle attività assistenziali da esso gestite[56].

Dunque, il 12 luglio 1790 venne approvata la Costituzione civile del clero, approvata da Luigi XVI il 26 dicembre. Con questo documento, ispirato ai principi gallicani (riconoscenza al papa del primato d'onore e di giurisdizione ma non del potere assoluto), venne attuata una riforma essenzialmente su quattro aspetti della Chiesa: riordinamento delle diocesi in base ai dipartimenti (furono soppresse 52 diocesi, da 135 a 83); retribuzione da parte dello Stato di vescovi, parroci e vicari; elezione democratica dei vescovi e dei parroci da parte delle assemblee dipartimentali; obbligo di residenza sotto pena di perdita della retribuzione; obbligo degli eletti di giurare lealtà alla civile costituzione e allo stato; in pratica, i membri del clero divennero così dei funzionari statali[57].

Pio VI
(Pompeo Batoni, 1775)

Il 1º agosto Luigi XVI incaricò l'ambasciatore a Roma di ottenere, da papa Pio VI, l'approvazione della nuova riforma. Il papa si era limitato a condannare segretamente la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino e per valutare la Costituzione Civile del Clero istituì una speciale commissione, la quale, preoccupata di perdere Avignone (all'epoca faceva parte dello Stato Pontificio ma gran parte degli Avignonesi erano favorevoli ad annettersi alla Francia) e di provocare una spaccatura tra i chierici, cercò di temporeggiare. I vescovi domandarono che si attendesse l'approvazione pontificia prima di mettere in vigore la nuova riforma, ma l'Assemblea insistette per una sua rapida applicazione e decise che per il 4 gennaio 1791 tutti i vescovi, parroci e vicari avrebbero dovuto prestare un giuramento di fedeltà come funzionari civili, pena la perdita delle funzioni e dello stipendio (nei casi più gravi anche l'esilio o la morte)[58].

I primi chierici cominciarono a prestare giuramento senza attendere il giudizio del pontefice ma, con sorpresa generale i 2/3 degli ecclesiastici dell'Assemblea nazionale costituente rifiutarono di giurare e pressoché la metà del clero parrocchiale fece altrettanto[59] e, pertanto, l'Assemblea destituì i refrattari (coloro che non prestarono giuramento) e li sostituì con i costituzionali (coloro che prestarono giuramento)[60].

Papa Pio VI fu costretto a prendere posizione e il 10 marzo 1791, con il Quod aliquantum, condannò la Costituzione Civile del Clero, in quanto danneggiava la costituzione divina della Chiesa. Il 13 aprile, con il Charitas quae, dichiarò sacrilega la consacrazione di nuovi vescovi, sospendeva ogni chierico costituzionale e condannava il giuramento di fedeltà allo Stato. I rivoluzionari, per rappresaglia, invasero Avignone; qui, nell'ambito della lotta fra chi sosteneva l'annessione alla Francia e i sudditi fedeli al pontefice, una sessantina di questi ultimi furono condannati sommariamente a morte e barbaramente uccisi in una delle torri del palazzo dei Papi (tale evento è ricordato come Massacri della Ghiacciaia).

Quando venne emanata la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino nell'agosto del 1789, il piccolo gruppo dei deputati protestanti reclamò anche la piena uguaglianza dei culti religiosi, trovando un parziale sostegno da parte della maggioranza dell'Assemblea che dichiarò: «Nessuno deve essere inquisito per le sue opinioni, anche religiose». Successivamente i cattolici del sud della Francia (dove più vivo era il sentimento antiprotestante) contrattaccarono, invitando l'Assemblea a riconoscere il cattolicesimo come religione di Stato. La proposta fu rigettata, contribuendo ad allontanare parte del clero dalla Rivoluzione.

Le condanne di Pio VI del 10 marzo e 13 aprile favorirono il distacco di un'ulteriore parte del clero (quello cosiddetto "refrattario", fedele al papa) dall'Assemblea nazionale Costituente, dividendo profondamente la Chiesa francese e aggravando il malcontento della popolazione mentre la questione del giuramento degenerò in uno scontro violento nell'ovest della Francia, dove le città sostenevano i chierici costituzionali e le campagne appoggiavano i refrattari[61].

Fuga a Varennes

Lo stesso argomento in dettaglio: Fuga a Varennes.

Il 14 luglio 1790, al Campo di Marte, era stato celebrato l'anniversario della Presa della Bastiglia con la Festa della Federazione e, dopo una celebrazione eucaristica sostenuta da Talleyrand, Luigi XVI e Maria Antonietta, accompagnati da La Fayette, avevano prestato giuramento al Paese e alla Costituzione (in fase di revisione)[62].

Questo momento di unione nazionale aveva fatto credere tanto alla popolazione tanto all'assemblea che il re avesse accettato i cambiamenti sociali e politici appena instaurati tanto che la popolazione presente al campo di Marte gridò continuamente "Viva il Re" testimoniando la propria fiducia nella lealtà della monarchia[63]. Anche i rapporti tra sovrano ed assemblea si erano fatti più distesi tanto che erano state conservate numerose prerogative della monarchia e che gli ideali repubblicani, già deboli, si erano ulteriormente assopiti[64].

La realtà, tuttavia, era diversa: infatti, Luigi XVI aveva tentato di conservare la sua autonomia e di riconquistare il potere che aveva perduto, mantenendo contatti con le corti straniere, chiedendo loro supporto contro i rivoluzionari e, come sincero cattolico, appoggiando il papa e i preti refrattari.

In sintesi, il fallimento del suo tentativo di fuga, avvenuto tra il 20 e il 21 giugno 1791 (Fuga a Varennes), ebbe la conseguenza di svelare alla popolazione francese la sua ostilità nei confronti della Rivoluzione, ruppe l'ideale di unità nazionale ed in sostanza distrusse ogni prestigio della monarchia[65].

Luigi XVI ritorna da Varennes
(Jean Duplessis-Bertaux, 1791)

Da tempo erano stati preparati diversi piani per permettere alla famiglia reale di fuggire da Parigi, ma l'indecisione di Luigi XVI portò all'accantonamento di ognuno di essi. Grazie all'insistenza di Maria Antonietta, il re si decise ad agire e optò per un tentativo di fuga ideato da Hans Axel von Fersen, con il quale sarebbero rimasti in territorio francese, al fine di preservare ciò che restava del prestigio e dell'autorità della monarchia; la loro destinazione era Montmédy, una roccaforte nel nord-est della Francia, vicino al confine con il Lussemburgo, dove ad attenderli ci sarebbe stato il comandante François Claude de Bouillé con soldati fedeli alla causa monarchica. Qui Luigi XVI avrebbe potuto organizzare un tentativo di controrivoluzione.

La sera del 20 giugno 1791 tutte le porte del palazzo delle Tuileries erano sorvegliate da uomini della Guardia nazionale. Ancora oggi non è chiaro quale via di fuga abbia utilizzato la famiglia reale; alcuni storici sostengono che La Fayette, al corrente del piano, favorì la fuga nella speranza di ottenere, in assenza del sovrano, la nomina di Capo dello Stato. I primi ad abbandonare il palazzo furono la governante Pauline de Tourzel con i figli della coppia reale; successivamente uscirono Luigi XVI, Maria Antonietta e Madame Elisabetta. La famiglia si ricongiunse verso la mezzanotte in un luogo poco distante, al riparo da sguardi indiscreti, e i suoi membri salirono a bordo della carrozza di von Fersen. Poco più avanti vennero raggiunti dalla carrozza reale, sulla quale si trasferirono per proseguire il viaggio. La stessa notte tentarono la fuga il conte e la contessa di Provenza, riuscendo a espatriare senza problemi.

La mattina del 21 giugno si diffuse la notizia della scomparsa del re: nella popolazione francese le reazioni furono miste, di sorpresa ma anche di risentimento. La Fayette, Bailly e altri decisero di far credere che il sovrano fosse stato rapito, con l'intento di salvare ciò che restava della monarchia costituzionale francese. Verso sera la carrozza reale venne riconosciuta da Jean-Baptiste Drouet, un addetto delle poste di Sainte-Menehould. Questi, montato a cavallo, riuscì a precedere la carrozza di Luigi XVI a Varennes-en-Argonne, allertando la popolazione locale dell'imminente arrivo del re. La famiglia reale venne bloccata, arrestata e ricondotta a Parigi, dove giunse al palazzo delle Tuileries il 25 giugno.

Luigi XVI perse la stima di molti cittadini francesi. Numerosi giornali rivoluzionari, ritraendolo in immagini caricaturali sotto forma di maiale, divennero sempre più ostili e irrispettosi nei confronti del re e della regina.

Costituzione del 1791

Club dei Giacobini

A meno di un mese dal fallito tentativo di fuga del re, il Club dei Cordiglieri (estremisti rivoluzionari) decise di redigere una petizione, con la quale chiese la destituzione del re e l'instaurazione della repubblica. I difensori della monarchia costituzionale, tra i quali La Fayette e Bailly, a seguito di incidenti decretarono la legge marziale, vietando qualsiasi manifestazione. Tuttavia, il 17 luglio, i parigini si radunarono a Campo di Marte per manifestare, sostenendo l'iniziativa dei Cordiglieri. La Fayette ordinò alla Guardia nazionale di sparare sulla folla disarmata, uccidendo soprattutto donne e bambini[66].

Questo evento (noto come Eccidio del Campo di Marte) portò a una rottura tra i rivoluzionari moderati e radicali: La Fayette, Bailly e Antoine Barnave uscirono dal Club dei Giacobini (che aveva appoggiato il Club dei Cordiglieri durante la manifestazione del 17 luglio) di cui facevano parte e fondarono il Club dei Foglianti, con il quale cercarono di limitare le conseguenze che la Rivoluzione stava apportando, sostenendo la monarchia costituzionale[67].

La revisione della Costituzione terminò il 12 settembre 1791 e il 13 dello stesso mese il re la ratificò, diventando Luigi XVI Re dei Francesi. La nuova riforma, basata sulle idee di Montesquieu (separazione dei poteri) e Rousseau (sovranità popolare e supremazia del legislatore), prevedeva una monarchia dai poteri limitati[68]: al sovrano, che rimaneva il rappresentante della Nazione, competeva il solo potere esecutivo tramite la nomina di alcuni ministri (scelti all'esterno del parlamento per evitare conflitti di interesse); il potere legislativo venne affidato all'Assemblea Legislativa, che sostituì l'Assemblea nazionale costituente, formata da 745 deputati.

L'elezione dei deputati avvenne a suffragio censitario a due gradi: il corpo dei cittadini attivi (uomini al di sopra dei venticinque anni che pagavano tasse per un valore corrispondente ad almeno tre giornate lavorative) eleggeva gli elettori (uomini al di sopra dei venticinque anni che pagavano tasse per un valore di almeno dieci giornate lavorative), ai quali spettava la successiva elezione dei deputati; un candidato deputato doveva essere un proprietario terriero e contribuente per una somma prestabilita; infine, su proposta di Maximilien de Robespierre, nessun deputato della precedente Assemblea nazionale costituente poté presentarsi come candidato all'elezione della nuova Assemblea, che si riunì a partire dal 1º ottobre 1791[69].

I più moderati formarono la destra, circa 260 monarchici di tendenza costituzionale iscritti al Club dei Foglianti, difensori della monarchia contro l'agitazione popolare; la sinistra con circa 135 deputati, per la maggior parte esponenti di idee illuministe della piccola borghesia, fu costituita da membri del Club dei Giacobini, dal Club dei Cordiglieri e dai Girondini; il centro, con circa 350 deputati, formava la cosiddetta Palude, rappresentava la maggioranza e difese gli ideali della Rivoluzione votando generalmente a sinistra ma, non avendo una forte caratterizzazione politica, capitò che sostenne anche proposte provenienti da destra[70].

Al re non spettava più la nomina dei magistrati (vennero eletti con le medesime procedure previste per l'elezione dei deputati) e la sua condotta in politica estera venne messa sotto controllo. Al sovrano tuttavia rimase la facoltà di nominare e revocare i ministri, i capi militari, gli ambasciatori e i principali amministratori[71]; conservò inoltre il potere di veto sospensivo sui provvedimenti approvati dall'Assemblea Legislativa, ma questo non poté applicarsi alle leggi costituzionali, alle leggi fiscali e alle deliberazioni concernenti la responsabilità dei ministri, i quali avrebbero potuto essere messi in stato d'accusa dall'Assemblea[72]. La Francia divenne così a tutti gli effetti una monarchia costituzionale.

Caduta della monarchia e instaurazione della Prima Repubblica

Dichiarazione di guerra all'Austria e prime sconfitte

La situazione politico-sociale disastrosa della Francia favorì un forte incremento dell'emigrazione (in gran parte nobili), confermando la progressiva radicalizzazione della Rivoluzione francese. Per cercare di contenere questa espansione rivoluzionaria entro i confini francesi, il 27 agosto 1791 Leopoldo II (imperatore del Sacro Romano Impero) e Federico Guglielmo II (re di Prussia), al termine di un incontro avvenuto a Pillnitz (dal 25 al 27 agosto, venne discusso principalmente il tema della spartizione della Polonia e la fine della guerra tra Austria e Impero Ottomano), rilasciarono una dichiarazione (Dichiarazione di Pillnitz), con la quale invitarono le potenze europee a intervenire contro la Rivoluzione francese per restituire i pieni poteri a Luigi XVI[73].

Negli stessi giorni, Leopoldo II dichiarò che l'Austria avrebbe mosso guerra solamente se tutte le potenze avessero fatto altrettanto, William Pitt il Giovane, condivise tale condizione; dunque, la Dichiarazione di Pillnitz sarebbe dovuta servire unicamente allo scopo di intimorire i rivoluzionari francesi, facendoli desistere dal continuare a indebolire l'autorità di Luigi XVI[74] ma sia la popolazione[75] sia l'Assemblea Legislativa interpretò il documento come una reale dichiarazione di guerra, il che fece aumentare l'influenza dei deputati radicali, tra i quali Jacques Pierre Brissot, favorevoli all'intervento bellico per radicalizzare il movimento rivoluzionario e diminuire ulteriormente il potere del re.

Francesco II
(Friedrich von Amerling, 1832)

Il 31 ottobre l'Assemblea votò un decreto volto a contrastare l'emigrazione, per il quale tutti gli emigrati francesi avrebbero dovuto tornare in Patria entro due mesi, pena la confisca delle loro proprietà; il 29 novembre venne adottato un secondo decreto che imponeva il giuramento civile ai chierici refrattari, pena la privazione della pensione o addirittura la deportazione in caso di disturbo all'ordine pubblico; infine, fu richiesto ai sovrani stranieri di cacciare gli emigrati dai loro territori[76]. Il clima di tensione, peraltro, era ulteriormente aggravato dal desiderio del Contado Venassino (appartenente allo Stato Pontificio) di annettersi alla Francia e dai principi tedeschi che si considerarono lesi dall'abolizione francese dei diritti feudali, in quanto proprietari di alcuni territori in Alsazia[77].

Luigi XVI, consapevole della disorganizzazione che regnava nell'esercito francese, sperava segretamente nello scoppio di una guerra che avrebbe sconfitto i rivoluzionari e riportato i pieni poteri alla monarchia; dello stesso parere era il Club dei Foglianti[78]. La sinistra, in particolare i Girondini, era anch'essa favorevole allo scoppio di un conflitto armato, con il quale avrebbe potuto tentare di esportare la Rivoluzione nel resto d'Europa. Dunque ognuno, per diversi motivi, desiderava la guerra (tra i pochi contrari vi fu Robespierre che preferiva consolidare ed espandere la Rivoluzione in Patria).

Il 20 aprile 1792, su proposta del re e dopo una votazione con una maggioranza schiacciante dell'Assemblea Legislativa, la Francia dichiarò guerra al re di Ungheria e di Boemia, Francesco II (appena succeduto al padre Leopoldo II, morto il 1º marzo): la guerra non venne dichiarata al Sacro Romano Impero: escamotage per evitare di coinvolgere gli stati tedeschi a esso aderenti[79]; la Prussia si alleò agli austriaci il 6 giugno. I Girondini definirono questo conflitto come una guerra dei popoli contro i sovrani, una crociata per la libertà[80].

Al tempo della dichiarazione di guerra, l'armata francese era in uno stato di totale disorganizzazione: i soldati avevano un morale piuttosto basso tanto che molti disertarono non appena seppero della dichiarazione di guerra, i reggimenti stranieri erano di dubbia lealtà, molti ufficiali, essendo di estrazione nobile, erano emigrati e non erano stati adeguatamente rimpiazzati. Presto, tra i rivoluzionari cominciò a svilupparsi l'idea dell'esistenza di un complotto di nobiltà, corte e chierici refrattari per abbattere la Rivoluzione; questa convinzione regnava anche sul campo di battaglia e a testimoniarlo vi fu la morte del generale Theobald de Dillon, ucciso dai propri uomini in seguito a una sconfitta subita nei pressi di Lille il 29 aprile, accusato di essere stato il responsabile della ritirata.

L'Assemblea, su forte pressione dei Girondini, votò tre decreti volti a prevenire e contrastare un'eventuale controrivoluzione: deportazione dei preti refrattari (27 maggio), scioglimento della Guardia reale (29 maggio) e costituzione di una Guardia nazionale provinciale per la difesa di Parigi (8 giugno). L'11 giugno Luigi XVI oppose il suo veto al primo e al terzo decreto, provocando una nuova agitazione rivoluzionaria che il 20 giugno sfociò nell'attacco della popolazione al palazzo delle Tuileries; durante l'insurrezione venne addirittura trascinato un cannone lungo la rampa delle scale del palazzo, il re venne obbligato ad affacciarsi al balcone, accettò impassibile di indossare il berretto frigio (simbolo di libertà e rivoluzione) e bevve vino alla salute del popolo, ma rifiutò di ritirare il veto sui decreti.

L'entrata in guerra della Prussia il 6 luglio costrinse l'Assemblea Legislativa ad aggirare il veto reale, proclamando la Patria in pericolo l'11 luglio 1792 e chiedendo a tutti i volontari di affluire verso Parigi.

Fine della monarchia

Il 25 luglio a Coblenza, su suggerimento di Luigi XVI e Maria Antonietta, venne redatto da Jacques Mallet du Pan, Jérôme-Joseph Geoffroy de Limon e Jean-Joachim Pellenc un proclama destinato ai parigini. Attribuito al comandante dell'esercito austro-prussiano, Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick-Wolfenbüttel, il documento minacciava sanzioni gravi in caso di attentato all'incolumità del sovrano e della famiglia reale (Manifesto di Brunswick)[81].

(FR)

«S'il est fait la moindre violence, le moindre outrage à leur Majestés, le roi, la reine et la famille royale, s'il n'est pas pourvu immédiatement à leur sûreté, à leur conservation et à leur liberté, elles (les Majestés impériale et royale) en tireront une vengeance exemplaire et à jamais mémorable, en livrant la ville de Paris à une execution militaire et à une subversion, et les révoltés coupables d'attentats aux supplices qu'ils auront mérités.»

(IT)

«Nel caso in cui venga usata la più piccola violenza o venga recata la minima offesa nei confronti delle loro Maestà, il re, la regina e la famiglia reale; se non si provvede immediatamente alla loro sicurezza, alla loro protezione ed alla loro libertà, esse (la Maestà imperiale e reale) si vendicheranno in modo esemplare e memorabile, abbandoneranno cioè la città ad una giustizia militare sommaria ed i rivoltosi colpevoli di attentati subiranno le pene che si saranno meritati.»

Il 1º agosto il manifesto venne affisso sui muri della città di Parigi ma, lontano dallo spaventare i cittadini, contribuì ad aumentare nella popolazione il sentimento di unione nazionale e l'odio nei confronti della monarchia. Per molti fu la prova definitiva dell'esistenza di un'alleanza tra il re e i nemici alleati che indusse i rivoluzionari a pretendere dall'Assemblea Legislativa la destituzione di Luigi XVI, ma la richiesta venne rifiutata[83].

Presa del palazzo delle Tuileries
(Jean Duplessis-Bertaux, 1793)

La notte del 9 agosto si formò un corteo di insorti davanti al Municipio di Parigi. Al loro fianco si schierarono le truppe di volontari, provenienti principalmente dalla Provenza e dalla Bretagna, che da poco avevano formato la Guardia nazionale provinciale. Complessivamente si riunirono circa 20.000 dimostranti fra uomini, donne, operai, borghesi, militari, civili, parigini e provinciali. Questi, armati di fucili e guidati da militanti sanculotti (uomini del popolo di idee rivoluzionarie radicali) delle varie sezioni di Parigi, erano talmente organizzati da far capire che la sollevazione era stata premeditata e preparata, evidenziando la maturità raggiunta dal movimento popolare. I principali organizzatori di questa giornata rivoluzionaria furono Jean-Paul Marat, Georges Jacques Danton, Maximilien de Robespierre, Louis Antoine de Saint-Just, Jacques-René Hébert, Camille Desmoulins, Fabre d'Églantine e altri.

Il corteo fece irruzione nel Municipio obbligando il consiglio comunale in carica a destituirsi; quest'ultimo venne sostituito da un consiglio rivoluzionario, la Comune Insurrezionale[84]. Successivamente la folla si diresse verso il palazzo delle Tuileries, giungendo a destinazione alle prime luci dell'alba del 10 agosto. La residenza reale era difesa principalmente dalla Guardia svizzera e da alcuni nobili, i quali portarono Luigi XVI e la sua famiglia nella Sala del Maneggio (sede dell'Assemblea Legislativa) con l'intento di mettere i reali sotto la protezione dell'Assemblea, riunita in seduta straordinaria: alle otto del mattino gli insorti decisero di penetrare nel palazzo; la Guardia svizzera reagì, provocando centinaia di morti, ma i manifestanti continuarono a giungere numerosi da ogni parte (soprattutto da Faubourg Saint-Antoine); il re, seguendo il consiglio dei deputati che volevano evitare un bagno di sangue, ordinò al comandante delle sue truppe di ritirarsi nella caserma. I soldati, eseguendo l'ordine appena ricevuto, vennero sorpresi e massacrati dalla folla; al termine degli scontri si contarono circa 350 morti fra gli insorti e circa 800 fra i monarchici, di cui 600 Guardie svizzere e 200 nobili[85].

Con la presa del palazzo delle Tuileries il potere passò di fatto nelle mani della Comune Insurrezionale che immediatamente obbligò l'Assemblea legislativa a dichiarare decaduta la monarchia e a convocare una nuova assemblea costituente (Convenzione nazionale) che avrebbe avuto il compito di stilare una nuova Costituzione a carattere democratico ed egualitario[86]. Luigi XVI, privato dei suoi poteri, venne rinchiuso insieme alla sua famiglia nella prigione del Tempio in attesa di essere processato. La sera del 10 agosto, in seguito a una seduta durata nove ore, l'Assemblea legislativa designò per acclamazione un Consiglio Esecutivo provvisorio composto da sei ministri: Danton (ministro della Giustizia), Gaspard Monge (ministro della Marina), Pierre Henri Hélène Tondu (ministro degli Esteri), Jean-Marie Roland de La Platière (ministro degli Interni), Joseph Servan (ministro della Difesa) e Étienne Clavière (ministro delle Finanze). segretario del Consiglio provvisorio fu nominato Grouvelle Philippe-Antoine.

Elezione dei deputati della Convenzione nazionale e proclamazione della repubblica

Georges Jacques Danton
(Constance Marie Charpentier, 1792)

All'inizio di settembre del 1792 l'esercito austro-prussiano proseguì il suo attacco, penetrando sempre più in territorio francese. Dopo la caduta della fortezza di Longwy il 23 agosto, l'attenzione dell'opinione pubblica incominciò a spostarsi sulla fortezza di Verdun, l'ultima a difendere la strada per Parigi, assediata dal 20 agosto; un attacco decisivo dell'esercito nemico la fece capitolare il 2 settembre, costringendo la Comune a chiamare alle armi un gran numero di cittadini per essere spediti al fronte. Tutto questo contribuì a diffondere nel popolo un'ondata di panico che, insieme alla convinzione generale dell'esistenza di un complotto controrivoluzionario, si trasformò in collera verso chi era ritenuto responsabile di questa critica situazione.

L'atmosfera satura di terrore e sospetti indusse la popolazione ad attaccare le carceri di Parigi. Tali episodi, verificatisi dal 2 al 7 settembre, vengono ricordati come Massacri di settembre e il loro risultato fu l'uccisione di tutte le persone ritenute colpevoli o sospette di atti controrivoluzionari. Processi sommari ebbero luogo in numerose carceri di Parigi e quasi 1.400 prigionieri furono condannati e giustiziati. Tra le vittime ci furono più di duecento chierici refrattari, un centinaio di Guardie svizzere, molti prigionieri politici e aristocratici, ma persero la vita anche numerose persone che erano state imprigionate ingiustamente o colpevoli di reati minori. Tra i massacri più celebri si ricordano quelli alla prigione dell'abbazia di Saint-Germain-des-Prés, al carcere del convento dei Carmelitani, alla Conciergerie, alla Prigione di Saint-Firmin, al Grand Châtelet, alla prigione La Force e al carcere dell'ospedale Salpêtrière. Simili insurrezioni, ma di minore entità, si verificarono nel resto del Paese, portando alla morte altre 150 persone circa. Queste uccisioni sommarie avvennero sotto gli occhi dell'Assemblea Legislativa che, non osando intervenire, evitò di condannarle.

L'elezione dei deputati della Convenzione nazionale si svolse dal 2 al 6 settembre 1792, dunque in un'atmosfera molto tesa e si decise di adottare un sistema elettorale simile a quello utilizzato per l'Assemblea Legislativa nel settembre del 1791: poteva votare una sola persona per nucleo familiare e avevano diritto al voto gli uomini al di sopra dei ventuno anni, residenti da almeno un anno e contribuenti per una somma pari ad almeno tre giornate lavorative; questi avrebbero scelto gli elettori, uomini al di sopra dei venticinque anni, residenti da almeno un anno e contribuenti per una somma pari ad almeno cinquanta o cento giornate lavorative; gli elettori a loro volta avrebbero votato i deputati della Convenzione nazionale[87].

Jean-Paul Marat
(Joseph Boze, 1793)

La partecipazione elettorale fu molto scarsa in quanto circa il 90% dei sette milioni di elettori si astenne dal votare. Questo fu dovuto principalmente all'allontanamento dei sostenitori della monarchia in seguito alla giornata del 10 agosto, al clima di terrore che regnava in quel periodo e alla paura generale di fare una scelta politica sbagliata che avrebbe comportato ritorsioni. La Convenzione venne così composta da 749 deputati repubblicani provenienti principalmente dalla borghesia. Questi si divisero in tre gruppi: a destra i Girondini, a sinistra i Montagnardi e al centro la maggioranza che non aveva ancora una linea politica ben definita[88].

I Girondini, fra cui spiccavano Jacques Pierre Brissot, Pierre Victurnien Vergniaud, Jérôme Pétion de Villeneuve e Jean-Marie Roland, rappresentavano l'ala più moderata della Convenzione: diffidavano dalla gente comune ma avevano l'appoggio della borghesia provinciale che aveva fatto fortuna durante la Rivoluzione[89]: intendevano opporsi al ritorno dell' Ancien Régime per godersi in pace i frutti dei loro successi ma erano restii a prendere decisioni di emergenza per soccorrere il Paese; i Girondini ottennero fin dal principio la direzione all'interno della Convenzione nazionale ma, sostenendo fermamente la lotta della Rivoluzione contro il potere dei sovrani, dovettero sperare nella vittoria in guerra per evitare di essere travolti dal loro stesso programma politico.

I Montagnardi (da "montagna", in quanto occupavano i banchi posti più in alto) provenivano principalmente dal Club dei Giacobini e rappresentavano l'ala più radicale della Convenzione: sensibili ai problemi della gente comune, erano disposti ad allearsi con i sanculotti o ad adottare misure di emergenza per salvare la Patria in pericolo. Alla guida dei Montagnardi ci furono Robespierre, Danton, Marat e Louis Antoine de Saint-Just.[90]

I deputati di centro, chiamati anche Pianura (in quanto occupavano i banchi posti più in basso) o in modo dispregiativo Palude, non avevano dei rappresentanti di spicco e dunque non possedevano una precisa linea politica[91]: appoggiarono i Girondini quando si trattavano argomenti inerenti alla proprietà e la libertà, mentre sostennero i Montagnardi quando al centro degli interessi c'era il bene della Nazione[92].

L'ultimo atto dell'Assemblea Legislativa fu decidere, il 20 settembre 1792, che i registri delle nascite e dei decessi da quel momento avrebbero dovuto essere tenuti dai comuni; l'indomani la Convenzione nazionale si riunì per la prima volta e il 21 settembre abolì la monarchia, proclamando la repubblica (Prima Repubblica)[93].

Prime vittorie in guerra

A seguito della sconfitta a Verdun i comandanti delle tre armate francesi che fronteggiarono l'esercito austro-prussiano (La Fayette, Nicolas Luckner e Jean-Baptiste Donatien de Vimeur de Rochambeau) vennero destituiti dal loro incarico e la Convenzione li sostituì con i generali Charles François Dumouriez e François Christophe Kellermann. Il 20 settembre 1792, nella battaglia di Valmy, l'armata francese riportò una vittoria insperata, inducendo Austria e Prussia a ritirarsi dalla Francia; in agosto Federico Guglielmo II aveva concluso un accordo segreto con la Russia per la spartizione della Polonia, problema che gli stava più a cuore rispetto alla difesa dei diritti della monarchia francese e ciò contribuì al rientro delle truppe della coalizione in Patria[94].

Sul piano militare si trattò di una vittoria poco rilevante ma l'importanza storica fu di grande portata, come sottolineò il poeta Johann Wolfgang von Goethe (fisicamente presente alla battaglia come osservatore prussiano) che scrisse: «Di qui e oggi comincia una nuova epoca della nostra storia del mondo». Il fatto che un esercito raccogliticcio, indisciplinato, di scarsa esperienza militare e per di più in sensibile inferiorità numerica fosse riuscito a sconfiggere l'esercito di due potenze coalizzate, infiammò l'opinione pubblica francese e ridiede credibilità all'esercito, mettendo in dubbio le capacità militari dei comandanti avversari.

L'avanzata delle truppe francesi proseguì con il generale Adamo Filippo de Custine che conquistò Spira (30 settembre), Worms (5 ottobre), Magonza (21 ottobre) e Francoforte sul Meno (22 ottobre), ottenendo l'occupazione della riva sinistra del Reno. Durante queste avanzate venne occupato anche il Ducato di Savoia. L'8 ottobre Dumouriez entrò in Belgio con l'intento di togliere l'assedio alla città di Lille e il 6 novembre riportò un'importante vittoria nella battaglia di Jemmapes che gli permise di occupare i Paesi Bassi austriaci (comprendevano gran parte degli attuali Belgio e Lussemburgo)[95].

Ovunque i francesi riuscirono a diffondere i loro ideali rivoluzionari: la Convenzione enunciò l'idea che le Alpi e il Reno erano le frontiere naturali della Francia, decretando nel dicembre 1792 l'annessione di tutti i Paesi occupati; questo approccio in politica estera fu poco coerente con gli ideali della Rivoluzione, la quale voleva la liberazione dei popoli; l'Inghilterra, che già in passato aveva contrastato fortemente la politica imperialista di Luigi XIV, successivamente assumerà la guida nella lotta alla Rivoluzione francese.

Processo ed esecuzione di Luigi XVI

Processo a Luigi XVI

Dopo l'arresto di Luigi XVI, i Girondini cercarono in ogni modo di evitare il suo processo temendo che questo potesse rianimare e rinforzare l'ostilità delle monarchie europee nei confronti della Francia[96]. La scoperta dell'armadio di ferro al palazzo delle Tuileries, il 20 novembre 1792, rese il processo inevitabile: i documenti reali rinvenuti provarono, senza possibili contestazioni, il tradimento di Luigi XVI e il 3 dicembre la Convenzione nazionale dichiarò che il procedimento penale sarebbe cominciato la settimana successiva[97]. Per la sua difesa il re, accusato di tradimento verso la Nazione e di cospirazione contro le libertà pubbliche, chiese l'assegnazione del più celebre avvocato dell'epoca, Guy-Jean-Baptiste Target, ma quest'ultimo rifiutò l'incarico; la Convenzione decise allora di assegnare all'imputato gli avvocati François Denis Tronchet, Chrétien Guillaume de Lamoignon de Malesherbes e Raymond de Sèze[98].

Il processo, presieduto da Bertrand Barère, cominciò il 10 dicembre: nei giorni seguenti gli avvocati difensori esposero le loro arringhe, sostenendo l'inviolabilità del sovrano prevista dalla Costituzione del 1791 e chiedendo che fosse giudicato come un normale cittadino e non come un Capo di Stato; i Girondini, che volevano condannare la carica del monarca ma non la persona, si trovarono in forte contrasto con i Montagnardi, i quali desideravano una netta separazione con tutto ciò che rappresentava il passato monarchico attraverso la condanna a morte. Il 15 gennaio 1793 il re fu riconosciuto colpevole con la schiacciante maggioranza di 693 voti contro 28 (erano presenti 721 deputati su 749)[99].

Il giorno seguente, su forte pressione dei Girondini, venne chiesto di decidere se la condanna di colpevolezza adottata dalla Convenzione nazionale avrebbe dovuto passare attraverso un referendum popolare; questo estremo tentativo di salvare la vita a Luigi XVI venne rifiutato con 424 contrari, 287 favorevoli e 12 astenuti (erano presenti 723 deputati su 749); sempre nella giornata del 16 gennaio si proseguì con la votazione inerente alla tipologia di pena da adottare nei confronti del sovrano; infine, alle nove della sera venne data lettura della sentenza: Luigi XVI sarebbe stato giustiziato per il 21 gennaio alle 11, a Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde). Il 17 gennaio, su richiesta di alcuni Girondini, venne eseguito uno scrutinio di controllo dove risultò che 387 deputati votarono la morte e 334 la detenzione o la morte con rinvio (erano presenti 721 deputati su 749).

Esecuzione di Luigi XVI

Luigi XVI fu condotto in carrozza in Place de la Révolution un'ora prima dell'esecuzione, dopo avere ricevuto la comunione nella Prigione del Tempio. Quando arrivò in piazza, indossando una camicia bianca di lino e una giacca che dopo l'esecuzione furono venduti all'asta, i soldati provarono a legargli le mani, ma il sovrano si sottrasse.[100] Le mani, comunque, gli furono legate sul patibolo dal boia Charles Henri Sanson, che gli tagliò il codino. Il resto del cerimoniale fu seguito dal re con freddezza, nonostante la fama di uomo codardo che gli si attribuiva. Prima di essere ucciso, sebbene i soldati cercassero di impedirglielo, Luigi XVI si rivolse ai parigini per pronunciare un breve discorso: "Muoio innocente dei delitti di cui mi si accusa. Perdono coloro che mi uccidono. Che il mio sangue non ricada mai sulla Francia!".[101] Secondo le testimonianze di alcune persone presenti, la ghigliottina scattò prima che Luigi fosse messo in posizione, e dunque la lama non tagliò del tutto il collo.[100]

Alla morte del re, sancita dalla testa mostrata alla folla da un membro della Guardia nazionale, i parigini festeggiarono ballando al suono dell'inno nazionale e, secondo le testimonianze dell'epoca, addirittura assaggiarono il sangue del re.[101] La festa durò a lungo, e uno dei testimoni, Louis-Sébastien Mercier, la descrisse così: «Vidi gente che passeggiava sottobraccio ridendo e scherzando amabilmente, come se si trovassero a una festa».[100] Alla fine il cadavere - trasportato in un cesto di vimini fino al Cimitero della Madeleine - finì in una bara aperta che fu calata in una fossa del cimitero e ricoperto di calce viva.[100] Luigi Carlo divenne automaticamente, per i monarchici e gli Stati internazionali, re Luigi XVII.

Prima coalizione e controrivoluzione interna

Conseguentemente all'esecuzione di Luigi XVI, l'Inghilterra assunse la guida nella lotta alla Rivoluzione francese, favorendo la creazione della Prima coalizione, alla quale aderirono il Regno Unito di Gran Bretagna, l'Arciducato d'Austria, il Regno di Prussia, l'Impero Russo, il Regno di Spagna, il Regno del Portogallo, il Regno di Sardegna, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana, la Repubblica delle Sette Province Unite (odierni Paesi Bassi) e lo Stato Pontificio[102].

La Francia venne così accerchiata da una forte coalizione di potenze avversarie e il 1º febbraio 1793 dichiarò guerra a Inghilterra e Paesi Bassi: il 24 febbraio i Girondini imposero il reclutamento di massa della popolazione abile al servizio militare per incrementare di 300.000 uomini le file dell'esercito; l'annuncio di questa decisione provocò diverse sollevazioni popolari in tutto il Paese, aggravate dalla successiva votazione della Convenzione nazionale che realizzò una vera logica del terrore: tutti quelli che avessero rifiutato di impugnare le armi sarebbero stati giustiziati immediatamente e senza processo[103].

L'impopolarità dei Girondini accrebbe ulteriormente in seguito alla loro cattiva condotta in politica economica, incapaci di sanare la grave crisi inflazionistica. I produttori alimentari immagazzinarono i loro prodotti piuttosto di scambiarli sul mercato con assegni ormai privi di valore. La popolazione, spinta dalla fame e dalla miseria, reclamò misure di emergenza contro il mercato nero, chiese l'abbassamento dei prezzi, la requisizione di viveri presso i produttori e la condanna degli speculatori. Nonostante questo quadro sociale disastroso, la Convenzione proseguì la sua tipica politica liberista, favorendo gli interessi dei benestanti e peggiorando sempre più la condizione di vita della gente comune. I Montagnardi, diversamente dai Girondini, appoggiarono le rivendicazioni dei cittadini, guadagnandosi il loro favore.

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerre di Vandea.

Fin dai primi attacchi la Prima Coalizione riuscì a espellere i francesi dai Paesi Bassi, ristabilendo poco alla volta tutti i confini prebellici. È in questo contesto che nel marzo del 1793 scoppiò un'insurrezione nel dipartimento francese della Vandea e nei territori adiacenti contro il governo rivoluzionario, che degenerò in una guerra civile (Guerre di Vandea)[104]. In questa zona della Francia, da sempre sostenitrice della monarchia, già da tempo si era diffuso un certo malcontento nei confronti della repubblica, dovuto principalmente alla politica anticlericale (in Vandea la fede cattolica era particolarmente radicata), all'aumento delle tasse e alla politica estera aggressiva che sfociò nella leva obbligatoria. La Vandea non era intenzionata a partecipare alle guerre causate dalla Rivoluzione e dunque a morire per una Nazione che non la rappresentava, per cui preferì insorgere contro di essa con l'intento di provare a restaurare la monarchia. I vandeani organizzarono un proprio esercito (Esercito Cattolico e Reale), costringendo la Convenzione ad attuare seri provvedimenti repressivi e a inviare un maggiore numero di soldati per contrastare queste violente insurrezioni.

La repressione attuata dal governo fu terribile: diverse migliaia di persone trovarono la morte, numerosi villaggi vennero distrutti e, secondo alcuni storici, Reynald Secher in particolare, tra l'inverno del 1793 e l'estate del 1794 in questo territorio si compì il primo genocidio della storia contemporanea[105]: difatti, i repubblicani non vollero solo fermare l'insurrezione, ma anche evitare che le idee controrivoluzionarie si diffondessero e questo significò non solo un massacro e distruzioni su scala fino ad allora sconosciuti ma anche una zelante volontà di cancellare parte dell'identità culturale delle regioni in rivolta[106]. Il numero delle vittime della repressione non è noto ma viene stimato tra i 117 e 170.000 morti[107].

Una tregua vera e propria si ebbe solo nella primavera del 1795, ma lo stato insurrezionale rimase sempre presente nella regione e la rivolta si riaccese più volte negli anni seguenti, soprattutto nei momenti di crisi dei governi repubblicani e napoleonici. Il successo delle Guerre di Vandea fu dovuto al fatto che a insorgere fu il popolo, il quale sceglieva i propri comandanti tra gli stessi contadini e tra la nobiltà esiliata, a volte costringendoli con la forza; in quel periodo si verificarono altre insurrezioni piuttosto improvvisate e organizzate da nobili, più interessati a riconquistare le proprie terre che a ripristinare la monarchia; per questo motivo venivano spesso abbandonati dai propri uomini che combattevano solo dietro compenso, tanto che l'esercito repubblicano non ebbe difficoltà a sopprimere queste rivolte.

Fine dei Girondini

Marie-Jeanne Roland de la Platière

Il 10 marzo 1793 la Convenzione nazionale istituì il Tribunale rivoluzionario (denominazione che assunse ufficialmente nell'ottobre dello stesso anno), mediante il quale vennero giudicati tutti gli oppositori politici. Il 18 marzo il deputato di centro Bertrand Barère propose la creazione di un nuovo comitato, da affiancare al Comitato di sicurezza generale (istituito ufficialmente nell'ottobre del 1792, agiva come organo di polizia proteggendo la repubblica rivoluzionaria dai nemici interni), con lo scopo di contrastare tutte le minacce rivolte alla repubblica, sia dall'interno sia dall'esterno del Paese. La proposta fu accolta e il 6 aprile venne istituito il Comitato di salute pubblica, formato da nove membri (allargato nel settembre 1793 a dodici) provenienti dalla stessa Convenzione che venivano rinnovati mensilmente mediante elezione: l'incarico presso il nuovo organo, che ebbe sede al palazzo delle Tuileries negli ex appartamenti della regina Maria Antonietta, fu immediatamente presa da Danton; la Convenzione nazionale mantenne la suprema autorità e il Comitato di salute pubblica dovette rendere conto a essa delle proprie decisioni[108].

In sintesi, con il nuovo sistema di governo la Convenzione nazionale eleggeva i rappresentanti del Comitato di sicurezza generale e del Comitato di salute pubblica. Quest'ultimo proponeva le leggi e nominava i rappresentanti per le missioni di guerra al fronte e all'interno dei dipartimenti, ma l'approvazione finale delle decisioni spettava alla Convenzione.

L'esclusione dei girondini dal Comitato di salute pubblica fu un'ulteriore causa di tensioni tra i rivoluzionari. Il conflitto tra la Gironda e la Montagna era scoppiato durante il processo al re, nel corso del quale i girondini avevano tentato la carta della clemenza, attirandosi sospetti di realismo. La loro politica moderata li rendeva sospetti soprattutto ai sanculotti e al Comune, più radicale; questo clima di ostilità a Parigi alimentò la convinzione dei girondini di favorire un decentramento territoriale del potere per impedire che la Convenzione cadesse nelle mani delle folle rivoluzionarie, che sempre più stavano influenzando con le loro insurrezioni la politica rivoluzionaria. I montagnardi, dal canto loro, erano ostili al federalismo, considerandolo una minaccia all'unità della repubblica[109][110].

La miccia dello scontro finale fu accesa dalla notizia della defezione del generale Dumouriez il 4 aprile: infatti, il giorno seguente i giacobini, su proposta di Marat, avanzarono una petizione per chiedere la destituzione dei deputati girondini della Convenzione, considerati complici di Dumouriez; Danton, sebbene fosse stato un tempo un attivo sostenitore riuscì a far ricadere tutte le accuse sui girondini; in un ultimo tentativo di reazione, la Gironda riuscì a mettere in stato di accusa Marat, in quanto ispiratore della petizione ma senza successo. I girondini avevano ormai perso il controllo di Parigi.

Il 31 maggio ci fu una manifestazione di sanculotti contro i girondini, seguita il 2 giugno da un'imponente insurrezione. Davanti al palazzo delle Tuileries, dove era riunita da tre giorni la Convenzione nazionale, si schierano circa 80.000 manifestanti, sostenuti dalla Guardia nazionale al comando di François Hanriot. I deputati non poterono uscire e uno dei collaboratori di Robespierre, Georges Couthon, chiese l'arresto dei due ministri (Clavière e Pierre Lebrun) e di ventinove deputati girondini. La Convenzione, sotto assedio, fu obbligata ad approvare.

La fine dei Girondini fu tragica: Brissot, Lebrun, Vergniaud e altre diciotto figure di spicco, dopo un breve processo tenutosi a Parigi dal 24 al 30 ottobre, finirono sulla ghigliottina. L'8 novembre comparve davanti ai giudici madame Roland, che venne condannata e uccisa il giorno stesso. Suo marito, Jean-Marie Roland, rifugiato in Normandia, si trafisse il cuore con un pugnale, lasciando un messaggio scritto: «Nel conoscere la morte di mia moglie, non ho voluto restare un giorno di più sopra una terra macchiata di delitti». Clavière si suicidò in carcere, così come Condorcet, catturato mentre si allontanava da Parigi dopo cinque mesi di latitanza. Preferirono uccidersi nella latitanza anche l'ex sindaco Pétion e François Buzot. Con la caduta della Gironda, la guida della Convenzione nazionale passò ai Montagnardi, appoggiati esternamente dai sanculotti, sebbene in alcune province francesi il sostegno ai girondini sopravvivesse.

Governo rivoluzionario dei Montagnardi

Il Comitato di salute pubblica

Lo stesso argomento in dettaglio: Comitato di salute pubblica.
La morte di Marat
(Jacques-Louis David, 1793)

Con l'eliminazione dei Girondini, i Montagnardi si trovarono soli alla guida della Convenzione nazionale con il compito di condurre la guerra e risanare la grave situazione sociale, politica ed economica della Francia. Le frontiere nazionali vennero invase dalle potenze della Prima Coalizione: gli spagnoli penetrarono a sud-ovest, i piemontesi a sud-est, i prussiani, gli austriaci e gli inglesi a nord e a est. Inoltre erano in pieno svolgimento le numerose insurrezioni popolari contro la giovane repubblica[111].

Il 13 luglio 1793, a Parigi, venne ucciso Marat: l'assassina, Charlotte Corday D'Armont, era una sostenitrice dei Girondini che in seguito alla giornata del 2 giugno si convinse di dover uccidere il deputato montagnardo, ritenuto il principale responsabile della guerra civile; dopo una breve conversazione, la donna estrasse un coltello che conficcò nel petto di Marat, recidendo l'aorta e penetrando fino al polmone destro. Charlotte Corday, arrestata e condannata a morte dal Tribunale Rivoluzionario, venne messa alla ghigliottina quattro giorni dopo. Questo avvenimento contribuì ad aggravare pesantemente la già critica situazione politica[112].

Maximilien de Robespierre
(anonimo, 1790 circa)

Nel Comitato di salute pubblica, Danton si rifiutò di approvare riforme di emergenza per sanare la difficile situazione in cui versava la Francia. Conducendo una politica moderata si oppose all'adozione di un'economia di guerra e alla leva obbligatoria, tentando accordi segreti con le potenze europee con l'intento di creare spaccature tra i membri della coalizione nemica. Sospettato di fare il doppio gioco, accusato di attuare una politica troppo cauta e malvisto dai sanculotti, il 10 luglio 1793 non venne rieletto membro del Comitato di salute pubblica[113].

Robespierre, entrato nel Comitato il 27 luglio, intraprese fin dall'inizio una politica volta ad alleviare la miseria delle classi più umili, accogliendo le indicazioni fornite dai sanculotti[114]: seppure contrario alla guerra, fu tra i più attivi nel rafforzare militarmente l'esercito repubblicano attraverso provvedimenti di controllo dell'economia[115]; preoccupato dagli eventi bellici, dai tentativi controrivoluzionari e deciso a estirpare ogni residuo della monarchia e dell'Ancien Régime, decise di sostenere la politica del cosiddetto Terrore, nel corso del quale si procedette all'eliminazione fisica di tutti i possibili rivali della Rivoluzione.[116]

Adottata per acclamazione dalla Convenzione nazionale e approvata da un referendum popolare, il 24 luglio venne promulgata una nuova Costituzione (Costituzione dell'Anno I o Costituzione Montagnarda), basata principalmente sulla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789. Con l'intento di calmare il clima di tensione che regnava in quel periodo, essa venne formulata per stabilire una vera sovranità popolare grazie a frequenti elezioni a suffragio universale che avrebbero permesso una consultazione popolare delle leggi varate dal corpo legislativo. Riconosceva vari diritti economici e sociali (associazione, riunione, assistenza pubblica e istruzione), concedeva il diritto di ribellione (in caso il governo avesse violato i diritti del popolo) e l'abolizione della schiavitù[117].

Nonostante i buoni propositi, questi provvedimenti non entrarono mai in vigore: il 10 agosto la Convenzione nazionale decretò che il governo sarebbe rimasto rivoluzionario fino all'ottenimento della pace in guerra, sospendendo così l'applicazione della nuova Costituzione.

Dinanzi alla continua avanzata in territorio francese della Prima Coalizione e sperando di soffocare i moti controrivoluzionari presenti in diverse province francesi, la Convenzione nazionale ratificò tutte le leggi che le vennero presentate dal Comitato di salute pubblica. Fra queste, la legge del 23 agosto applicò la leva di massa che permise di inviare tra le file dell'esercito tutti gli uomini celibi o vedovi di età compresa fra i diciotto e venticinque anni[118] mentre l'economia francese venne totalmente riconvertita per scopi bellici e chi non venne spedito al fronte dovette partecipare agli sforzi di guerra adattandosi alla rigida economia di risparmio.

Regime del Terrore

Lo stesso argomento in dettaglio: Regime del Terrore.
Sanculotto
(Louis-Léopold Boilly, 1793)

Il 5 settembre 1793 un folto gruppo di sanculotti armati manifestò per indurre la Convenzione nazionale ad assicurare il pane a prezzi più abbordabili e ad approvare dei provvedimenti drastici nei confronti di chiunque si fosse opposto agli ideali della Rivoluzione. Guidata dal Comitato di salute pubblica, la Convenzione cercò di calmare l'agitazione popolare promulgando varie riforme.

Il 9 settembre venne approvata la formazione dell'Armata rivoluzionaria che, sotto il comando del generale Charles Philippe Ronsin ebbe il compito di requisire il grano presente nelle campagne a discapito dei contadini e commercianti accaparratori (coloro che preferirono immagazzinare i loro prodotti piuttosto che immetterli sul mercato per essere scambiati con assegni senza valore).

Il 17 settembre fu approvata la legge dei sospetti, proposta da Philippe-Antoine Merlin de Douai e Jean-Jacques Régis de Cambacérès, con la quale ogni nemico—o presunto tale—della Rivoluzione venne incarcerato o giustiziato sommariamente. Nel dettaglio questa riforma definì sospetti tutti i nobili e i loro parenti (senza definire il grado di parentela), tutti i preti refrattari e i loro parenti (senza definire il grado di parentela), tutte le persone che per condotta, atteggiamenti, relazioni, opinioni verbali o scritte, si dimostrarono nemici della libertà. Con una definizione così vasta e poco dettagliata delle persone ritenute sospette, i Montagnardi abusarono di questa legge, condannando chiunque era d'intralcio. Monarchici, chierici refrattari, nobili emigrati, accaparratori, speculatori, evasori fiscali, estremisti e moderati furono i gruppi maggiormente colpiti dalla nuova legge del Terrore.

Durante questo periodo di grave inflazione, le merci furono gli unici prodotti, oltre ai beni immobili, a mantenere il loro valore reale. Cominciarono così a manifestarsi fenomeni di accaparramento e per contrastare questo fenomeno la Convenzione nazionale il 26 luglio 1793 approvò, su consiglio di Collot d'Herbois, la legge contro gli accaparramenti: si stabilì il divieto di conservare in luogo chiuso derrate ritenute di prima necessità senza che fossero state sottoposte a vendita giornaliera (i principali prodotti che rientrarono in questa normativa furono farina, carne, burro, frutta, sapone, legna da ardere, carbone, rame e qualsiasi tipo di tessuto); le pene per i trasgressori vennero stabilite in misure pesantissime che potevano giungere fino alla ghigliottina; infine, furono costituite, nelle municipalità, speciali commissioni di controllo i cui membri avevano accesso, con il supporto della forza pubblica, a qualsiasi luogo o residenza[119].

Questa legge portò a scarsi risultati e il perdurare dell'incremento dei prezzi (non trattati dalla legge contro gli accaparramenti) indusse la Convenzione nazionale ad approvare, il 29 settembre, la legge del maximum: per tutte le merci previste dalla legge contro gli accaparramenti, la legge del maximum stabiliva che il prezzo massimo cui potevano essere vendute era quello che avevano raggiunto nell'anno 1790 maggiorato di un terzo, mentre per i salari veniva consentita una maggiorazione del 50%; la pena prevista per i trasgressori andava da dieci anni di carcere alla condanna a morte[120].

Caricatura inglese
(George Cruikshank, 1819)

Poiché le nuove norme sull'accaparramento e sui prezzi non intervennero sulle cause del problema ma solo sugli effetti, i risultati furono l'esatto contrario di quanto ci si aspettava: al mercato ufficiale, dal quale le merci sparirono immediatamente, si sostituì un mercato illegale parallelo, al quale ci si doveva rivolgere per riuscire ad avere qualcosa a prezzi esorbitanti; i salariati che fornivano la mano d'opera e tutti gli altri operatori indipendenti sui quali il controllo della remunerazione era impossibile, si rifiutarono di lavorare ai prezzi orari stabiliti dalla legge del maximum; i fornitori di beni, coltivatori in primis, si trovarono nella condizione di non poter continuare l'attività produttiva a causa della scarsa remunerazione dei loro prodotti rispetto ai costi, per cui molti raccolti furono abbandonati; le autorità reagirono violentemente a questa situazione, inasprendo le pene e istituendo commissioni incaricate di procedere alla coazione ma tale misura non fece altro che alimentare la corruzione[121].

In questo periodo venne ideata e messa in pratica la figura del Rappresentante in missione, inviato straordinario della Convenzione nazionale per il mantenimento dell'ordine e il rispetto della legge nei dipartimenti e negli eserciti. A questi uomini vennero conferiti poteri praticamente illimitati che permisero loro di supervisionare le azioni dei militari (comprese quelle dei generali), con la facoltà di poter giudicare il loro operato: fu concesso loro di dirigere comandi militari locali in caso di disordini e di istituire tribunali rivoluzionari; i Rappresentanti in Missione abusarono spesso della loro carica, diventando l'espressione materiale del Terrore, specialmente in Vandea ove organizzarono processi sommari[122].

Maria Antonietta condotta al patibolo
(Jacques-Louis David, 1793)

Durante il regime del Terrore si verificò un grande processo di scristianizzazione, in quanto i rivoluzionari più estremisti ritenevano la religione cattolica superstiziosa e tirannica, sostenendo che ogni essere umano si sarebbe dovuto ispirare a ideali come la ragione, la libertà e la natura[123]: tutte le chiese cattoliche vennero chiuse e si cominciò a predicare la religione rivoluzionaria, un numero elevato di chierici refrattari venne condannato a morte, numerosi beni della Chiesa furono requisiti, si celebrarono feste in onore della libertà e della ragione, si praticò il culto dei martiri della Rivoluzione e fu ideato il calendario rivoluzionario (l'inizio dell'anno era il 22 settembre, anniversario della proclamazione della repubblica), in quanto quello gregoriano ruotava intorno alla suddivisione e alla scansione del tempo basato su cicli settimanali in uso nella religione ebraica e cristiana[124].

I sostenitori di questa ideologia, Jacques-René Hébert in primis, vollero rompere ogni legame con il passato, pensando che la responsabilità di tutti i mali era della Chiesa ma il processo di scristianizzazione fu talmente improvviso, irruente, irrazionale e ateo che indusse il deista Robespierre a porre un freno a questa situazione, approvando una commissione per la libertà di culto[125][126].

Nel frattempo nella primavera del 1794 (febbraio-marzo), furono approvati due decreti (i cosiddetti Decreti Ventosi, dal nome del mese del calendario rivoluzionario in cui entrarono in vigore) che inasprirono ulteriormente il controllo sull'economia e la repressione disponendo la confisca dei beni degli emigré e degli oppositori affinché fossero ridistribuiti agli indigenti; in ogni caso, nonostante l'appoggio dei gruppi più radicali tra i giacobini, tali decreti non furono sostanzialmente applicati da Robespierre[127].

Durante il Terrore, che ebbe fine nell'estate del 1794, furono ghigliottinate circa 17.000 persone, 25.000 subirono esecuzioni sommarie, 500.000 vennero imprigionate e 300.000 furono poste agli arresti domiciliari[128][129]: tra le vittime più significative troviamo: Maria Antonietta (16 ottobre 1793), Brissot e Vergniaud (31 ottobre 1793), Barnave (28 novembre 1793), Hébert (24 marzo 1794), Condorcet (suicida in prigione il 29 marzo 1794), Danton, Desmoulins, d'Églantine (5 aprile 1794), gli stessi Robespierre e Saint-Just come atto finale (28 luglio 1794) e molti altri.

Condotta politica di Robespierre

Camille Desmoulins
(Jean-Sébastien Rouillard)

Verso la fine del 1793 e l'inizio del 1794 la politica economica francese adattata a scopi bellici, approvata dal Comitato di salute pubblica, permise all'esercito repubblicano di bloccare l'avanzata della Prima Coalizione e di soffocare la controrivoluzione interna. Le vittorie a Hondschoote (8 settembre), Wattignies (16 ottobre), Wissembourg (26 dicembre) e Landau (28 dicembre) permisero di giungere alla grande offensiva della primavera del 1794, con la quale i nemici vennero scacciati oltre i confini nazionali. L'armata rivoluzionaria riuscì a rioccupare il Belgio, la regione della Renania e i Paesi Bassi (nel gennaio del 1795 vennero trasformati nella Repubblica Batava). L'Europa in quel periodo pullulava di simpatizzanti della Rivoluzione, in particolar modo tra gli intellettuali formati dall'Illuminismo, che talvolta trasformarono la lotta contro la Prima Coalizione in una guerra civile europea in cui i francesi poterono contare su larghe simpatie all'interno degli Stati contro cui combattevano.

I Montagnardi condussero sin qui una politica d'emergenza volta a supportare i sanculotti a discapito della borghesia. Quest'ultima, davanti al pericolo di invasione della Prima Coalizione con la conseguente reintroduzione dell' Ancien Régime, non si oppose alla condotta politica montagnarda, ma con l'affievolirsi del pericolo chiese un allentamento delle azioni di emergenza e la fine del Terrore; i borghesi, d'altro canto, trovarono i propri interpreti negli Indulgenti (provenienti dal Club dei Cordiglieri, tra i quali Danton e Desmoulins), misero in dubbio l'utilità del Terrore[130].

Se la borghesia protestò contro la dittatura di Robespierre appoggiandosi agli Indulgenti, gli Arrabbiati e gli Hebertisti (gruppi di agitatori radicali, tra i quali rispettivamente Jacques Roux e Jacques-René Hébert) minacciarono sollevazioni popolari contro il Comitato di salute pubblica, reclamando la spoliazione di tutti i ricchi e spingendo la politica anticlericale della Rivoluzione a una vera e propria scristianizzazione totale della Francia[131].

Per un breve periodo Robespierre sembrò cedere alle richieste di questi gruppi radicali ma in seguito, non condividendo né l'ateismo né l'estremismo sociale degli Arrabbiati e degli Hebertisti, decise di ideare un piano per eliminare tutte le correnti politiche che minacciavano la sua popolarità e il suo potere, con il quale avrebbe mandato ogni esponente politico nemico alla ghigliottina: dopo un tentativo di sollevazione contro il governo (peraltro con l'opposizione dello stesso Hébert)[132], il 13 marzo vennero arrestati con l'accusa di complotto numerosi Hebertisti, tra i quali lo stesso Hébert; furono giustiziati il 24 marzo[133].

La stessa sorte toccò agli Indulgenti, tra i quali Danton e Desmoulins, arrestati il 30 marzo[134]: durante il processo, Danton si difese con veemenza insultando i giudici; fu allora approvato un decreto, su proposta di Saint-Just, che ordinò l'esclusione dai dibattiti processuali di chiunque avesse insultato la giustizia o i suoi rappresentanti; costretto al silenzio, Danton fu condannato a morte insieme ai suoi sostenitori (60 di cui 11 deputati della Convenzione), il 4 aprile[135].

Festa dell'Essere Supremo
(Pierre-Antoine Demachy, 1794)

Un decreto del 7 maggio, emanato dalla Convenzione nazionale su istanza del Comitato di salute pubblica, stabilì il culto dell'Essere supremo, con il quale si cercò di sostituire il culto della Ragione ideato dagli Hebertisti. Robespierre fu un deista, colui che ritiene l'uso corretto della ragione un mezzo per elaborare una religione naturale e razionale completa ed esauriente, che tuttavia riconosce l'esistenza della divinità come base indispensabile per spiegare l'ordine, l'armonia e la regolarità nell'universo.

Basandosi su questa ideologia, aveva infatti fortemente attaccato le tendenze atee e la politica di scristianizzazione degli Hebertisti e decise di opporre al loro culto il riconoscimento dell'esistenza dell'Essere supremo e dell'immortalità dell'anima: il culto dell'Essere supremo concepì una divinità che non interagiva con il mondo naturale e non interveniva nelle faccende terrene degli uomini: si concretizzò in une serie di feste civiche, destinate a riunire periodicamente i cittadini attorno all'idea divina, promuovendo valori sociali e astratti come l'amicizia, la fraternità, il genere umano, l'uguaglianza, la virtù, l'infanzia, la gioventù e la gioia[136].

La festa dell'Essere supremo venne celebrata l'8 giugno. Dal palazzo delle Tuileries al Campo di Marte l'inno all'Essere supremo, scritto dal poeta rivoluzionario Théodore Desorgues, fu cantato dalla folla su musica di François-Joseph Gossec. Robespierre precedette i deputati della Convenzione nazionale, avanzando solo e indossando per la circostanza un abito celeste cinto da una fascia tricolore. La folla immensa, venuta per il grande spettacolo, fu incitata da Louis David. Davanti alla statua della Saggezza Robespierre diede fuoco a manichini che simboleggiavano l'ateismo, l'ambizione, l'egoismo e la falsa semplicità. Alcuni deputati derisero la cerimonia, chiacchierarono e si rifiutarono di marciare al passo. Nonostante l'impressione profonda prodotta da questa festa, il culto dell'Essere Supremo fallì nel creare l'unità morale fra i rivoluzionari e contribuì anzi a suscitare una crisi politica in seno al governo rivoluzionario.

La caduta di Robespierre e la fine del Terrore

Lo stesso argomento in dettaglio: Colpo di Stato del 9 termidoro.

Con l'eliminazione di tutti i suoi grandi oppositori Robespierre restò il solo dominatore della Francia. La dura politica di epurazione di ogni nemico della Rivoluzione proseguì e il Tribunale rivoluzionario perse anche l'ultima parvenza di regolarità, concedendo ai giudici la condanna degli imputati sulla base di semplici prove morali. Infatti, venne emanata la legge del 22 Pratile anno II (10 giugno 1794), chiamata Loi de Prairial (legge del Pratile) la quale, privando gli accusati del diritto di difesa e di ricorso in appello, accentuava il ruolo del Tribunale rivoluzionario ed inaspriva il Terrore giacobino[137].

Durante questo periodo, noto come "Grande Terrore", a Parigi persero la vita circa 1.400 persone in meno di due mesi; tra di essi Antoine-Laurent de Lavoisier e André Chénier[138].

Venuto meno il pericolo di un'invasione straniera, le misure eccezionali emanate durante il Terrore cominciarono a sembrare eccessive: infatti, conseguentemente all'esecuzione di Danton, una delle figure più popolari, molta gente cominciò a sentirsi un possibile bersaglio e futura vittima e dunque il Terrore cominciò a perdere il sostegno popolare e dunque la sua ragion d'essere. Fra i membri della Convenzione nazionale, invasi dalla paura per la loro incolumità, cominciò a delinearsi un gruppo di oppositori a Robespierre guidati principalmente da Joseph Fouché, Jean-Lambert Tallien e Paul Barras[139].

Il 26 luglio 1794, dopo una breve assenza dalla scena politica, Robespierre si presentò alla Convenzione, dove tenne un lungo e violento discorso: ammonì sulla possibilità di una cospirazione contro la repubblica e minacciò di condannare alcuni deputati che avevano a suo parere agito ingiustamente ed suggerì che il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale avrebbero dovuto sottoporsi a un rinnovamento dei propri membri[140].

Tali minacce crearono grande agitazione all'interno della Convenzione e molti cominciarono a pensare chi fossero i deputati destinati a essere puniti, in quanto Robespierre non menzionò alcun nome. La maggioranza dei deputati, convinta dalla grande eloquenza di Robespierre, inizialmente approvò il discorso ma in seguito ad alcune proteste ritirò i suoi voti[141].

Il giorno successivo Saint-Just, portavoce di Robespierre, cominciò a parlare alla Convenzione, venendo continuamente interrotto da violente proteste. Qualcuno gridò: «Abbasso il tiranno!». Robespierre esitò nel replicare a questi attacchi e dagli astanti si alzò un grido: «È il sangue di Danton che ti soffoca!». Nel pomeriggio Robespierre, suo fratello Augustin Robespierre, Saint-Just, Couthon e Philippe-François-Joseph Le Bas furono arrestati. Vennero liberati poco dopo da un gruppo di uomini della Comune e condotti al Municipio di Parigi, dove furono raggiunti dai loro sostenitori: alla notizia della liberazione la Convenzione nazionale si riunì nuovamente e dichiarò fuori legge i membri della Comune e i deputati da questi liberati mentre la Guardia nazionale, fedele alla Convenzione, venne affidata al comando di Barras[142].

La mattina del 28 luglio la Guardia nazionale si impadronì del Municipio senza troppe difficoltà. I sanculotti reagirono fiaccamente in quanto erano stanchi, affamati e convinti che la fine del Terrore avrebbe posto rimedio al blocco dei salari imposto dalla legge del maximum. Su quello che successe a Robespierre durante questo episodio le opinioni degli storici divergono: qualcuno sostiene che cercò di opporre resistenza e venne colpito da un proiettile sparato dal soldato Charles-André Merda, che gli fracassò la mascella; altri sostengono la tesi del tentato suicidio; un'altra ipotesi è quella dello sparo accidentale dell'arma impugnata dallo stesso Robespierre nel momento in cui cadde per terra durante i momenti concitati della tentata fuga. Comunque siano andate le cose, Robespierre venne arrestato insieme con numerosi suoi fedeli, tra cui nuovamente Saint-Just, Couthon, Le Bas e suo fratello Augustin il quale, nel tentativo di sfuggire alla cattura, si gettò dalla finestra sul selciato dove venne raccolto moribondo[143].

Il colpo di Stato che pose fine al periodo del Terrore, che culminò all'indomani, con l'esecuzione alla ghigliottina di Robespierre e dei suoi collaboratori il 28 luglio 1794, è noto anche come "Termidoro" o "Reazione termidoriana"[144].

La nuova Costituzione dell'anno III fu votata dalla Convenzione il 17 agosto 1795 e ratificata per plebiscito a settembre. Essa fu effettiva a partire dal 26 settembre dello stesso anno e fondò il nuovo regime del Direttorio.

Gli ultimi tentativi giacobini

Caduto Robespierre, il principale pericolo per la stabilità politica (e per la stessa esistenza in vita dei deputati moderati) era rappresentato dall'eventuale reazione montagnarda e giacobina[145], che si concretizzò nelle due grandi insurrezioni del 12 germinale e 1 pratile (1º aprile e 20 maggio 1795) alla cui repressione diedero un contributo decisivo i realisti e le loro sezioni armate di Parigi[146]. Dopodiché l'alleanza fra repubblicani e realisti si estese nel resto della Francia, con la repressione ricordata come Terrore bianco.

Il Direttorio (26 ottobre 1795-9 novembre 1799)

Napoleone Bonaparte, primo console

La costituzione dell'anno III

Il Direttorio fu il secondo tentativo di creare un regime stabile in quanto costituzionale. La pacificazione dell'ovest e la fine della prima coalizione permisero di stabilire una nuova costituzione; per la prima volta in Francia il potere legislativo fu affidato a un Parlamento bicamerale, composto da:

Il potere esecutivo venne affidato a un Direttorio di cinque persone nominate dal Consiglio degli Anziani su una lista fornita dal Consiglio dei Cinquecento; i ministri e i cinque direttori non erano responsabili davanti alle assemblee ma essi non potevano più scioglierle; infine, il suffragio universale maschile fu sostituito da un suffragio censitario[148].

In ogni caso, tuttavia, tale sistema di governo dimostrò subito i suoi limiti: infatti, come nella costituzione francese del 1791, mancava una procedura per la soluzione dei conflitti istituzionali[149], dei cinque membri del direttorio, solo uno, Lazare Carnot era dotato di carisma e autorevolezza[150], inoltre, mancando di una solida base di appoggio popolare, fu contestato tanto dai sostenitori del Terrore tanto dai Realisti; in sintesi, secondo Brown, fu un periodo caratterizzato da "violenza cronica, ambivalenti forme di giustizia, ricorso ripetuto alla spietata repressione del dissenso"[151].

Il tentativo realista del 13 vendemmiaio

La definitiva repressione dei montagnardi aveva reso i termidoriani liberi dalla necessità di assicurarsi l'alleanza con i realisti, dei quali temevano la grande forza elettorale (questi erano, sicuramente, maggioranza nel Paese, ancorché non nell'esercito e alla Convenzione). Ciò, nell'agosto 1795, indusse la maggioranza termidoriana della Convenzione all'approvazione del Decreto dei due terzi: i due terzi degli eletti ai nuovi consigli avrebbero dovuto essere attribuiti a membri della Convenzione. In tal modo, di fatto si negava ai realisti la possibilità di assicurarsi democraticamente la maggioranza parlamentare nelle elezioni generali programmate per il 12 ottobre[152].

Era una manovra probabilmente indispensabile, in quanto molte regioni del Paese (in particolare l'Ovest, la valle del Rodano e l'Est del Massiccio Centrale) elessero deputati realisti. Il partito monarchico, così rinforzato, reagì con la fallimentare insurrezione del 13 vendemmiaio (5 ottobre 1795), segnata dal grande massacro, nel centro di Parigi, delle milizie legittimiste ribelli, operato dall'esercito fedele alla convenzione termidoriana. La conseguente repressione anti-monarchica fu, tuttavia, relativamente blanda.

La ripresa realista e il colpo di Stato del 18 fruttidoro

Durante tutta la durata del Direttorio, l'instabilità politica fu incessante. Le "reti di corrispondenza" realiste, appoggiate ai deputati realisti e moderati del Club di Clichy e in parte coordinate con i due fratelli del sovrano decapitato, Luigi e Carlo (e con le potenze nemiche), svolgevano un'efficace azione di propaganda[153].

Tanto efficace da consentire loro la vittoria alle elezioni del marzo-aprile 1797, per il rinnovo di un terzo dei seggi ai due consigli. La nuova maggioranza doveva affrontare l'opposizione del Direttorio, ove solo due dei cinque 'direttori' propendevano dalla loro parte. I restanti tre, Barras in testa, reagirono assicurandosi l'appoggio dell'esercito e organizzando, nel settembre 1797, il Colpo di Stato del 18 fruttidoro, che portò alla cacciata di due dei cinque direttori (de Barthélemy e Carnot) e alla destituzione di 177 deputati, molti dei quali condannati alla deportazione in Guyana.

La congiura degli Eguali

Lo stesso argomento in dettaglio: Congiura degli Eguali.

Nel maggio 1796, la società degli Eguali, gruppo radicale, erede degli Enragés, organizzò una congiura di tipo socialista-comunistico contro il Direttorio, che, tuttavia, fallì completamente. Lo scopo era quello di abolire, anche con la forza, la proprietà privata, sostenendo esplicitamente che i frutti della terra appartengono a tutti, in modo da far scomparire ogni differenza sociale fra gli uomini. Gli organizzatori, tra cui François-Noël Babeuf detto Gracco, l'italiano Filippo Buonarroti e Augustin Darthè furono arrestati e condannati a varie pene. Gracco Babeuf e Darthè vennero condannati a morte nel 1797. Buonarroti fu condannato all'esilio perpetuo, ma continuò l'attività cospirativa, fondando diverse società segrete e facendo opera di proselitismo.

Gli ultimi anni del direttorio

Le successive elezioni del 1798 sembrarono dare il favore ai Giacobini: i consigli si concessero allora il diritto di designare i deputati nella metà delle circoscrizioni, fatto che permise ai Termidoriani di mantenersi il potere, ma furono totalmente screditati.

La situazione economica contribuì anche a distogliere i francesi dal regime: infatti, non bastando il gettito delle imposte e con il valore degli assegnati ormai inferiore a quello della carta su cui erano stampati, il governo istituì una nuova moneta, il "mandato territoriale", che, tuttavia, si svalutò ben presto[154].

A partire dal 1797, lo Stato chiese ai contribuenti di pagare le imposte in denaro contante, ma con la crisi finanziaria la moneta metallica si era rarefatta. Dopo gli anni dell'inflazione legata all'assegnato, la Francia conobbe un periodo di abbassamento dei prezzi che toccò soprattutto il mondo rurale: incapace a far fronte all'enorme debito accumulato dalla monarchia assoluta e in otto anni di rivoluzione, le assemblee si rassegnarono alla bancarotta dei "due terzi": la Francia rinunciò a pagare i due terzi del suo debito pubblico ma consolidò l'ultimo terzo iscrivendolo nel gran libro del debito; infine, per sembrare credibile agli occhi dei creditori, nel 1798 venne creata una nuova imposta sulle porte e sulle finestre. I gendarmi furono precettati per coprire l'imposta.

L'avvento di Napoleone e la fine della rivoluzione

Grazie agli sforzi del Comitato di salute pubblica, le armate francesi erano passate all'attacco. Nella primavera 1796 una grande offensiva attraversò la Germania per costringere l'Austria alla pace. Tuttavia fu l'armata d'Italia, comandata dal giovane generale Napoleone Bonaparte, che creò la sorpresa aggiungendo sempre nuove vittorie e forzando l'Austria a firmare la pace col Trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797.

Napoleone esporta la rivoluzione

Tra il 1797 e il 1799 quasi tutta la penisola italiana fu trasformata in repubbliche sorelle (in Italia chiamate anche "repubbliche giacobine") con dei regimi e delle istituzioni ricalcate su quelle francesi. Se le vittorie alleviavano le finanze del Direttorio, esse resero il potere sempre più dipendente dall'armata e così Bonaparte divenne l'arbitro del dissenso politico interno. La spedizione in Egitto aveva l'obiettivo di impedire la via delle Indie al Regno Unito, ma i Direttori furono contenti di togliere il loro sostegno a Napoleone, che non nascondeva il suo appetito di potere.

La moltiplicazione delle repubbliche sorelle inquietò le grandi potenze, Russia e Regno Unito in testa. Esse temevano il contagio rivoluzionario e una troppo forte dominazione della Francia sull'Europa. Questi due Stati furono all'origine della seconda coalizione del 1798. Le offensive inglesi, russe e austriache furono respinte dalle armate francesi dirette da Brune e Masséna, ma l'Italia fu in gran parte persa e i risultati della campagna di Bonaparte resi vani. Era ormai chiaro che il popolo francese cercava un nuovo uomo forte per difendere le sorti della Repubblica, poiché il Direttorio era inesorabilmente corrotto e cominciava a tramare con Luigi XVIII per restaurare il trono dei Borbone. Allarmato da queste notizie e conscio che la sua ora era giunta, Napoleone tornò dall'Egitto e assunse il comando del complotto che mirava a rovesciare il Direttorio, un complotto tessuto tra gli altri da Sieyès e dal fratello di Napoleone, Luciano Bonaparte, presidente dell'Assemblea dei Cinquecento.

Il governo personale di Napoleone

Il 9 novembre 1799 il colpo di Stato detto "del 18 Brumaio" rovesciò il Direttorio e instaurò un triumvirato retto dai consoli Bonaparte, Sieyès e Ducos. Napoleone proclamò in quella sede l'atto di chiusura della Rivoluzione: «Citoyens, la révolution est fixée aux principes qui l'ont commencée, elle est finie» (Cittadini, la rivoluzione è fissata ai principi che l'hanno avviata, essa è conclusa). Fu messo in piedi il Consolato: un regime autoritario diretto da tre consoli, di cui solo il primo deteneva realmente il potere. Nel 1804 Napoleone ruppe gli indugi facendosi plebiscitariamente nominare "imperatore dei francesi", con il nome di Napoleone I, di fatto restaurando la monarchia, anche se costituzionale e di tipo nuovo. La Francia cominciò un nuovo periodo della sua storia apprestandosi a consegnare il proprio destino a un imperatore. La Rivoluzione, di fatto già terminata nel 1799, poté dirsi conclusa: cominciava l'epoca napoleonica.

Il bilancio della rivoluzione

Nonostante l'alto costo umano (circa 600.000 morti) e materiale di quella che fu anche una vera e propria guerra civile, la Rivoluzione ottenne significativi risultati nell'eliminare un sistema secolare, resistente a tutto se non a un enorme sconvolgimento come quello rivoluzionario, l'Antico Regime. Il giudizio della maggioranza degli storici odierni vede la Rivoluzione come necessità storica, dato che si era giunti alle soglie del XIX secolo con privilegi medievali garantiti a una minoranza della popolazione, pur riconoscendo i molti eccessi che la caratterizzavano[155]. Tra gli obiettivi raggiunti e i principi fissati dalla Rivoluzione[156]:

Note

  1. ^ Palmer & Colton, p. 341.
  2. ^ Palmer & Colton, p. 361.
  3. ^ Desan, pp. 3,8,10.
  4. ^ Mannucci, p.12.
  5. ^ Lefebvre, pp. 146-147.
  6. ^ Mathiez-Lefebvre, p. 34.
  7. ^ Doyle, pp. 67-74.
  8. ^ Mannucci, pp. 18-20.
  9. ^ Spinosa, p. 48.
  10. ^ Mannucci, pp. 22-23.
  11. ^ Frey, p. 2.
  12. ^ Hibbert, pp.35-36.
  13. ^ Hibbert, p. 36.
  14. ^ Doyle, 2001, p. 34.
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  16. ^ Doyle, p. 93.
  17. ^ Frey, pp. 4-5.
  18. ^ Neely, pp. 63-65.
  19. ^ Doyle, p. 38.
  20. ^ Doyle, p. 59.
  21. ^ Soboul, pp. 1787-1799.
  22. ^ Doyle, pp. 99-101.
  23. ^ Schama, pp. 298-301.
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  25. ^ Stewart, p. 86.
  26. ^ Schama, p. 303.
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  28. ^ Thiers
  29. ^ Schama, p. 312.
  30. ^ Schama, p. 317.
  31. ^ a b Giorgio Bonacina, 14 luglio: la folla irrompe come un fiume, articolo su "Storia illustrata" nº 126, maggio 1968, p. 30
  32. ^ a b c Gaxotte, p. 128.
  33. ^ Schama, p. 331.
  34. ^ Giorgio Bonacina, 14 luglio: la folla irrompe come un fiume, articolo su Storia illustrata nº126, maggio 1968, p. 31
  35. ^ Schama, pp. 344-346.
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